Può il teatro offrire empowerment a chi lo pratica? I risultati di una ricerca fra le compagnie di “teatro e salute mentale” rivela l’importanza dell’attività teatrale come strumento positivo per incrementare l’autostima e la cura di sé, insieme alla volontà di svolgere un ruolo attivo nel proprio contesto di vita per contribuire a combattere lo stigma.

Il Teatro Offre Bellezza ed Empowerment. È il motto sintetizzato nell’acronimo TO BE che riassume il Manifesto di un teatro per e nella salute mentale, presentato al convegno nazio­nale sul tema, andato in scena lunedì 11 dicem­bre a Bologna, all’Arena del Sole. Si è trattato di un evento importante, che ha richiesto molti sforzi, tempo, energie, ma alla fine…ne valeva la pena, perché si è formalmente costituita una Rete Nazionale dei Teatri della salute mentale, con la sottoscrizione del Manifesto da parte di operatori e attori di compagnie teatrali di diver­se regioni italiane, referenti di associazioni di familiari, del volontariato e di enti istituzionali locali e regionali (v. sito www.Teatralmente.it).

Ma cosa significa che il teatro offre empowerment? E come può farlo? Ma ancora prima cos’è empowerment?

Il termine empowerment è intraducibile in italiano (come in altre lingue), nonostante diversi tentativi fatti che si sono rivelati spesso astrusi ma soprattutto inefficaci a rendere tutta la complessità del concetto: si tratta infatti di un concetto “intrigante”, che ha dato luogo in letteratura ad una moltitudine di analisi, rifles­sioni, rielaborazioni, approfondimenti, solle­vando grandi entusiasmi, ma anche perplessità e critiche (basti pensare alla parola potere che ne costituisce la radice etimologica). Merita perciò un’attenzione particolare.

ll concetto comprende diverse dimensioni: a) il controllo, ossia la capacità, percepita o effetti­va, di influenzare le decisioni che riguardano la propria vita; b) la consapevolezza critica, cioè la comprensione di come operano le strutture di potere, di come vengono prese le decisioni; c) la partecipazione, ovvero la tendenza ad attivarsi per far accadere le cose, per ottenere i risultati auspicati e sviluppare strategie per il cambiamento sociale. Inoltre, l’empowerment include sia i processi che i risultati. I processi empowering si riferiscono alle modalità con cui i soggetti acquisiscono e incrementano le capacità di controllare attivamente il proprio contesto di vita; i risultati (o outcomes) empo­wered si riferiscono alla operazionalizzazione del concetto, cioè alle conseguenze degli sforzi dei soggetti di controllare la propria situazione. L’aspetto più significativo di questo quadro teorico è aver esplicitato che l’empowerment è un concetto “multilivello”, che è possibile cioè articolarlo in un livello individuale (o psicolo­gico), quando si occupa di variabili intraper­sonali e comportamentali, un livello organiz­zativo quando ci si occupa di mobilitazione di risorse e di opportunità di partecipazione, un livello di comunità quando si affrontano le strutture sociopolitiche ed il cambiamento sociale. Nel senso più completo, è dato dalla sinergia dell’empowerment “psicologico”, rela­tivo al senso di padronanza e di controllo del soggetto su ciò che riguarda la relazione con parte del mondo, e dell’empowerment “ogget­tivo-ambientale”, cioè le risorse e le possibilità fornite e/o consentite dall’ambiente.

In una ricerca di qualche anno fa su 3 com­pagnie teatrali dell’Emilia-Romagna, in cui sono state coinvolte 62 persone (tra attori, registi, operatori sanitari e teatrali), ci siamo chiesti se e come l’esperienza teatrale influen­za il processo di empowerment nei soggetti, partendo dall’ipotesi che la partecipazione ad attività artistiche produce effetti positivi in termini di responsabilizzazione e autonomia, tradizionalmente considerati come precursori dell’empowerment. Rispetto alla dimensione del controllo, è stato chiesto agli attori/utenti se avessero sviluppato nuove competenze personali, se avessero scoperto cose di sé stessi dall’inizio del percorso teatrale ad oggi e che cosa si­gnificasse per loro questo tipo di esperienza. Dalle interviste era emerso che le competen­ze acquisite riguardano sia l’apprendimento dell’arte teatrale (capacità di interpretazione dei personaggi, di memoria, di concentrazio­ne, di consapevolezza del proprio corpo e dei propri movimenti), ma anche riconosci­mento di cambiamenti a livello personale e individuale (aumento dell’autostima, un’im­magine di sé come persona, come attore, e solo alla fine, anche come utente di un ser­vizio) e dell’autoefficacia.

“Mi sono sentita importante, mi sono sentita una persona che c’ero, invece prima ero giù nel senso, non mi sentivo una persona, non so cosa sentivo, non mi ricordo, però non sta­vo tanto bene e il teatro mi ha aiutato a stare anche meglio nella vita; a conoscere altra gente, il confronto, tutte quelle cose lì che sono importanti.”

L’aspetto della consapevolezza critica si ritro­va chiaramente nella sottolineatura fatta dagli attori di poter affrontare anche forme di pre­giudizio e stigmatizzazione, poiché come uten­ti di un Servizio di salute mentale diventano protagonisti della scena e portatori di un mes­saggio positivo non solo all’interno dei servizi ma anche nella società in senso più ampio.

“C’è la consapevolezza che tutti quanti stiamo facendo qualcosa di utile per noi e per gli altri”.

Il teatro fornisce gli elementi per esprimersi e sentirsi cittadini attivi all’interno del luogo in cui si vive: emerge da parte dell’utente-attore l’importanza di sentirsi partecipe e portavoce di una comunità più ampia, a cui poter dare il proprio contributo sia come persona che come attore, sinonimo quindi della presenza e necessità di una forte partecipazione.

“Mi sento molto investito del fatto che io sono portavoce di coloro che non riescono o che non possono o che non ce la fanno, cioè mi sento molto investito dell’attore, non è quello il mio fine, sono bravo ma a parte quello, non è quello che mi interessa, che mi vengono a dire son bravo, etc, mi interessa che la gente prenda più coscienza del proble­ma; voglio dire non è che noi siamo la percentuale di quelli pericolosi, siamo nella media come gli altri, se capiscono che possiamo fare qualcosa di importante non soltanto nel teatro, anche nelle altre attività e metti la mano sulla coscienza di qualcuno, è buono, lo ritengo positivo”.

Elementi analoghi di questo processo empowering sono presenti anche nelle interviste ai registi e agli operatori sanitari che lavorano all’interno delle compagnie, che riconoscono effetti positivi sia nell’ambito professionale che personale (Zani, 2017, A teatro. In compagnia, Pendragon Editore).

La ricerca consente quindi di dimostrare, “portando evidenze”, l’importanza del teatro come strumento positivo di empowerment per chi lo fa (ma anche per chi lo guarda), come un luogo dell’anima, in cui acquisire capacità, incrementare autostima e cura di sé, voglia di partecipare e svolgere un ruolo nel proprio contesto di vita per contribuire a combattere lo stigma.

Alla fine del convegno TO BE, un regista mi ha detto: “Sono molto contento della giornata di oggi, perché mi porto a casa tanti dubbi!” È questo l’empowerment! E non è un paradosso…

(Articolo pubblicato su E PAS E TEMP NEWS)

Bruna Zani
Presidente Istituzione Gian Franco Minguzzi