A seguito del dibattito aperto da “ senza potere nei servizi di ” presentiamo qui la seconda ed ultima parte della risposta di Luca Negrogno.

Dopo aver affrontato le problematiche di ordine epistemologico, di governance ed epidemiologiche poste dal tema della , nella seconda ed ultima parte della mia risposta intendo situare la questione nel contesto socio-politico più ampio del cambiamento del . L’occasione di ampliare in questo senso la riflessione sul rapporto tra e potere nei servizi di viene dalle osservazioni contenute nell’intervento di .
Fioritti vede come rilevante il passaggio dagli anni 70, anni di formulazione della critica alla psichiatria che ha portato alla legge 180, alla fase successiva, che ha comportato un’onda lunga di psichiatria rinnovata, meno coercitiva nelle pratiche e più emancipatoria nei processi e negli esiti. Bisogna riconoscere l’assoluta correttezza dell’analisi di : non ci potrebbe essere oggi alcuna riflessione in continuità con quella stagione se i suoi protagonisti non avessero svolto la difficile funzione di mediazione istituzionale che il funzionamento dei sistemi sanitari comporta. Solo sedimentando questa cultura in una pratica quotidiana di gestione delle istituzioni si è potuto ottenere quel “miglioramento delle condizioni di vita, di inserimento lavorativo, di aspettativa di vita , riduzione dei ricoveri obbligatori di oltre il 60%, superamento degli OPG e tanti altri aspetti ancora che fanno dell’Italia, al netto delle rilevanti differenze territoriali e dei preoccupanti depauperamenti di risorse degli ultimi dieci anni, una anomalia rilevante nel panorama internazionale”.

Il punto su cui credo di poter ulteriormente discutere con riguarda la lettura più “politica” della riforma psichiatrica. In breve Fioritti propone che non sia efficace guardare agli esiti della legge 180 con le lenti di quella che era la posizione di una parte del movimento e che io condivido ancora oggi: che la riforma psichiatrica fosse “un processo della società civile che avrebbe dovuto fare delle pubbliche istituzioni italiane delle macchine di distruzione delle diseguaglianze, dei dispositivi capaci di risolvere i conflitti legati alla malattia mentale senza coercizioni e senza intrusioni nella sfera fisica (farmacologiche o contenitive), dei motori di una riforma sociale più ampia che desse il via alla “deep democracy” in tutti i campi, locali, regionali, nazionale e globali”. Secondo Fioritti questo schema porta necessariamente alla delusione delle aspettative: il cambiamento intervenuto nella società in più di 40 anni ha rivelato troppe questioni che dall’approccio “movimentista” non erano considerate; indulgere in questa visione rischia di stimolare solo “passioni tristi” che ostacolerebbero e appesantirebbero il lavoro (difficile) da fare per mantenere alti livelli di una psichiatria che deve comunque mediare tra richieste sociali parziali e contraddittorie, tra emancipazione e controllo, tra espulsione e coesione, tra salute e malattia, tra sofferenza e potenza. Sono queste polarità comunque inevitabili della vita umana e bisognerà farci i conti, non potendo ipotizzare di risolverle “politicamente” a partire da un Servizio di , per quanto buono e aperto a forme reali ed effettive di .

Sono grato di potermi confrontare con questo pensiero, di cui non posso che ammirare l’onesto realismo e il senso di responsabilità, connesso ad una acuta percezione dei limiti: qualità di cui c’è sempre un infinito bisogno. La mia posizione vuole però recuperare (senza che siano in alcun modo “passioni tristi”, su questo concordo!) la dimensione più “politica” dell’analisi proponendo che essa, proprio in forma di “passione”, sia necessaria ad affrontare l’attuale situazione in cui ci troviamo ad operare. Come per certi versi è accaduto negli anni ‘70, infatti, il si trova di fronte ad una nuova possibile “transizione”. Il pubblico universalistico viene da anni messo in discussione (non senza ragioni) e sono in corso varie riflessioni per sostituire alla sua conformazione “redistributivo-prestazionale”, una nuova configurazione “generativa” e “progettuale”, la cui forma potrebbe essere prefigurata da dispositivi come il Budget di Salute e da pratiche come quelle della . La mia idea è che questo è un passaggio di importanza epocale ma il cui esito non è scontato: il rischio di liberarci, insieme all’acqua sporca della burocrazia e delle prestazioni, anche del bambino dell’uguaglianza e dei sociali, è molto alto. Stato e mercato possono essere due temibili Scilla e Cariddi e sarebbe necessario guardare alle possibilità di sviluppo, in questa difficile strettoia, di quello che è stato definito il Comune [1], come potenza alternativa ad entrambi e a cui entrambi dovrebbero essere ontologicamente e logicamente subordinati, trattandosi di ciò che ne garantisce la possibilità, cioè la vita concreta e collettiva di ciò che esiste, immerso in relazione costitutiva con l’ambiente. Propongo quindi di concludere la mia risposta sul tema della partecipazione in introducendo un’analisi politica della fase di transizione in cui siamo rispetto ai modelli di . Per attraversarla sarà secondo me necessaria una passione politica simile a quella dei riformatori degli anni ‘70, ai Basaglia, a Maccacaro, ai movimenti di cui facevano parte, fuori e dentro le istituzioni. Assicuro che non si tratterà di “passioni tristi” se avremo a disposizione analisi adeguate all’attualità, che è ciò che qui voglio iniziare a proporre.

La crisi dei modelli di

L’epoca gloriosa del welfare state europeo si colloca tra il secondo dopoguerra e la fine degli anni ’70. In Italia questa fase ha vissuto un notevole “strascico” temporale dato dal fatto che alcune fondamentali leggi determinanti nella costituzione di un sistema moderno di servizi pubblici come la 180, la 194 e la 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, sono arrivate solo in ritardo, sul finire di un decennio di mobilitazioni politiche e sociali di ampia portata. Lungo questa fase i sistemi di protezione sociale hanno attuato un compromesso tra la dichiarata impostazione “universalistica” e la pratica “prestazionale”, orientata cioè alla copertura di specifici rischi sociali e quindi calibrata su particolari target di popolazione. Tali target erano identificati in base alla definizione di “deficit”, permanenti o temporanei, rispetto allo standard costituito da specifici modi di vita – a loro volta determinati dalle dominanti modalità di produzione e riproduzione sociale. Il principale oggetto di questo modello di welfare è il maschio lavoratore, che a un certo punto della sua vita mette su famiglia, che accede ad un certo livello di consumi in funzione di una certa modalità di integrazione sociale, che è capace di calibrare la spesa (o meglio l’investimento) nelle sue scelte lavorative, abitative, riproduttive. Egli sapeva che un certo numero di voci economiche erano a carico delle tutele collettive (disoccupazione, invalidità, malattia, previdenza sociale, abitazione – anche se quest’ultima solo in minima parte); tale soggetto astratto, il male breadwinner contava su una certa idea di espansione e di progresso lineari e costanti, che aveva egli stesso sperimentato con l’evolversi degli stili di consumo in una società affluente e redistributiva; tale idea lineare ed espansiva faceva da sfondo al modello di welfare che contribuiva a determinare la sua sicurezza.

Per esempio, fare in modo che la prole si dedicasse a un percorso scolastico o a un percorso formativo-professionale acquisiva senso nel contesto di un’evoluzione prevedibile del mondo, di una consequenzialità nella successione dei fenomeni, collettivi e individuali, in cui era richiesta una precisa accumulazione di esperienze, valori, capitale sociale e culturale.

In tale contesto il welfare forniva prestazioni nella misura in cui i suoi obiettivi di integrazione sociale erano evidentemente condivisi da una maggioranza effettiva di popolazione, accomunata da simili modelli di riferimento, ideali, proibizioni, per quanto sui diversi livelli della stratificazione sociale. Di conseguenza, ogni azione rivolta all’integrazione sociale si svolgeva entro un orizzonte chiaro di nozioni di riferimento, modi di vita verso cui aspirare, idealtipi condivisi, entro i quali un approccio fondamentalmente redistributivo (nelle sue modalità di finanziamento, nelle sue epistemologie e nelle sue prassi di intervento) svolgeva una funzione comunque integrativa, per quanto oscillante tra modalità più emancipatorie o più repressive, nella misura in cui interveniva su specifiche vulnerabilità o fragilità per ricondurle nell’alveo di una forma di esistenza collettivamente accettata e riconosciuta. Di fondo, restava un “solco” abbastanza definito entro cui si giocavano normalità e devianza, integrazione ed esclusione, accettabilità o non accettabilità delle caratteristiche e delle condotte individuali.

Il tentativo di modernizzare questa impostazione del sistema non si può dire veramente compiuto. L’effettiva innovazione è stata portata avanti solo in misura marginale dalle soggettività politiche e sociali che avevano posto in essere le istituzioni del welfare della golden age. Ben più dotato di forza materiale e simbolica, il grande processo intervenuto negli ultimi quarant’anni a modificare i modi di vita di singoli e collettività è stato dominato dal mercato, sospinto e a sua volta volano di una radicale trasformazione nelle tecnologie e nelle comunicazioni, sempre più svincolato dalla sua precedente imbrigliatura e parziale funzionalizzazione agli obiettivi generali dello stato nazione e sempre più deterritorializzato e deterritorializzante, rispondente a nuove logiche rispetto alle quali i dispositivi di integrazione “comunitaria” ancora vigenti fino alla fine degli anni ’70 (e marginalmente nelle epoche successive) risultavano spuntati o reazionari quando non meramente illusori.

La moltiplicazione di possibilità individuali, valori di riferimento, modelli lavorativi, familiari, riproduttivi, culturali ha effettivamente comportato una imprevedibilità dei modi di vita, insieme alla moltiplicazione dei rischi collettivi ed individuali ad essi connessi. Tale moltiplicazione dei rischi, unita al fatto che per sua natura il mercato tende a riempire di barriere d’accesso la “piazza” in cui si svolge, si è sviluppata mentre i vecchi strumenti di “assicurazione collettiva” dai rischi rivelavano il loro volto più antipatico: quello arretrato, normativizzante, astrattamente repressivo. Il welfare oggi si muove entro questo cocente paradosso tra l’imprevedibilità delle proliferanti libertà individuali e i rischi ad esse connessi. Un certo numero di persone infatti viaggia tra città globali, rifiuta la totalità dei ruoli ascritti per nascita, pretende e realizza percorsi privati di emancipazione. Nel fare ciò questa molteplicità di persone si connette “fluidamente”, in forme di integrazione comunitaria non codificate, instabili. Le istituzioni pubbliche sanno pochissimo di queste forme fluide, tranne doversene però comunque occupare per le inevitabili vicissitudini che, anche in tali percorsi, producono conseguenze avverse, esternalità collaterali, incidenti non gestibili dai singoli. Il paradosso è visibile anche da un punto di vista più generale: mentre si moltiplicano le possibilità di partecipare agli scambi globali in modo fluido e non codificato, aumentano anche le forme di possibile esclusione da queste “piazze del mercato”, sempre più virtuali, diffuse, frammentate. Per darne un immagine metaforica: i luoghi di scambio sociale inclusivi hanno vie d’accesso e vicoli bui intrisi di violenza; la pressione di chi ne rimane fuori può diventare un serio problema di tenuta della “coesione sociale” quando non apertamente di ordine pubblico.

Un welfare che vorrà avere senso in questo contesto dovrà evitare di interferire con i singoli modi di vita che vogliono prodursi nella piazza, avere cura che i mille scambi “individualizzanti” (cioè attraverso i quali si producono identità complesse e sfaccettate) possano svolgersi in essa, garantendone soprattutto l’inclusività; tale nuovo modello di welfare dovrà avere cura che le persone possano scegliere tra più identità possibili, senza finire schiacciate da nessuna di esse. Più che un ruolo di controllore dell’ordine pubblico e della rigidità delle barriere d’accesso, il welfare dovrà forse essere lo strumento attraverso cui la cura della “piazza” venga vissuta come responsabilità di tutte le persone che la attraversano, in cui assumano fungibilità impreviste anche i valori d’uso di chi a un primo sguardo potrebbe sembrare senza nulla da scambiare; grazie a cui le opinioni e le prassi dei vicoli bui abbiano la stessa dignità di ciò che luccica sotto i raggi del sole nell’aperto della piazza.

L’emergere del paradigma delle neurodivergenze, per esempio, anche se affonda le sue radici nel “modello sociale della disabilità” testimonia proprio di questi attuali modelli di emancipazione: pur assumendo la base definitoria del paradigma neurobiologico, le persone neurodivergenti contestano l’interpretazione medico-correttiva e rivendicano il superamento della norma in nome di un diritto alla “biodiversità neurologica”. Come conseguenza di questa lettura è la società a dover garantire le forme adeguate di a risorse e , riducendo il proprio “abilismo”, e non la persona e la sua irriducibile peculiarità a doversi adattare.

L’interconnessione globale e la responsabilità ecologica

Mentre i modi di vita e le opportunità si moltiplicano, la comunicazione si fa globale, i capitali e un certo gruppo di persone viaggiano sempre meno vincolati da confini, si va affermando nelle coscienze, prima di gruppi sparuti e conflittuali, poi in modo sempre più massiccio e condiviso, la consapevolezza della inevitabile relazione sistemica tra tutti i nostri gesti, le nostre scelte e le loro conseguenze, potenzialmente catastrofiche, sul piano planetario. Gli stati-nazione, determinati per quarant’anni a lasciar correre le forze di mercato, avendo scelto di affossare come trascurabili residui le questioni derivanti dalle mobilitazioni sociali spinte dalla componente del lavoro salariato, sentono affiorare negli ultimi anni il ritorno di ciò che sembrava essere stato superato nella vittoria storica conseguita. Pandemie generate da virus che traboccano tra specie animali, catastrofi climatiche, inattingibilità delle fonti di approvvigionamento energetico, squilibrio nei rapporti tra viventi e condizioni di evoluzione della biosfera complessivamente sfavorevoli alla specie umana, carenza di carta per scrivere, acqua per bere: il tema della responsabilità collettiva, spinto fuori dalla porta nell’epoca della globalizzazione neoliberale e della deregulation, rientra prepotentemente da una finestra ormai divelta. Nella globalità di scelte infinite, rifiuto dei ruoli ascritti, volatilizzazione di ogni appartenenza comunitaria, si ripresenta il convitato di pietra della nostra comune appartenenza ad un delicatissimo e complesso sistema di interscambio tra viventi che condividono un ambiente.

Tra gli storici movimenti sociali che hanno attraversato la sanguinosa vicenda del Novecento ci sembra oggi necessario rileggere e tenere a mente le elaborazioni del femminismo materialista e alcune intuizioni rivoluzionarie dell’autonomia italiana degli anni ’70, che ci hanno dato utili strumenti per cogliere la portata della svolta storica che già in quegli anni andava profilandosi. Il femminismo materialista, con la sua enfasi sull’inestricabile legame tra produzione e riproduzione sociale, ha mostrato che tale indecidibilità può essere sciolta e viene storicamente risolta solo attraverso precise operazioni del potere – chiarendo che la decisione su tale distinzione non è affatto naturale o metastorica ma eminentemente politica. Dell’autonomia italiana degli anni ’70 ci sembra che la più importante intuizione sia stata quella sul rapporto di subalternità logica e ontologica tra l’immediatezza dei modi di vita collettivi, che le anche subalterne si danno per accedere a una vita desiderabile, e la conseguente organizzazione delle catene della valorizzazione capitalistica. Non stupisce che ad oggi siano principalmente le evoluzioni di questi filoni di pensiero che si dimostrano all’altezza delle riflessioni e delle sfide imposte dall’attualità, soprattutto quando richiamano l’urgenza di nuove alleanze interspecie, di modalità radicali di redistribuzione della ricchezza non più fondate su un modello produttivo che domina e schiaccia la “natura” (dentro e fuori di noi) e gli altri esseri viventi, quando analizzano criticamente i processi di induzione delle varie forme di subalternità, facendone la base per una rinnovata lettura delle possibili da realizzare. Con questi strumenti teorici potremo rispondere preparati all’attuale necessità di un pensiero dei bisogni radicali, consapevoli che non sono più pensabili forme di emancipazione individuali senza che esse siano collocate nell’ambito della sostenibilità sistemica. Oggi ritorna in primo piano una questione altrettanto radicale, dimenticata con la sconfitta e la dispersione storica del movimento operaio: quella dell’uguaglianza, questa volta intesa non più solo come questione che riguarda le classi sociali, ma come una questione radicale di riorganizzazione del mondo in forme che possano tenere insieme il delicato equilibrio tra libertà e sostenibilità, quindi sulla base di una profondissima redistribuzione dei rischi, ferma restando l’indiscutibilità delle conquiste individuali nel campo dei civili e dell’autodeterminazione delle propria identità, insieme a tutte le nuove conquiste che si spera ancora verranno in questo ambito.

È incontestabile il legame tra la prassi del cambiamento delle istituzioni, la “politicizzazione dei tecnici” avvenuta in psichiatria, nella sanità e negli altri servizi pubblici, e queste correnti dei movimenti degli anni ’60 e ’70, che, insieme al pensiero decoloniale, alla sociologia radicale e alle più profonde elaborazioni della filosofia del secolo scorso (l’esistenzialismo, la psicoanalisi, la fenomenologia e lo strutturalismo, con i suoi derivati), in un contesto in cui la fibrillazione sociale e culturale arrivava a toccare anche il mondo cattolico di base, hanno nutrito l’humus di una anomalia rivoluzionaria, di cui la italiana ancora porta il segno.

Il disagio e i saperi tecnici

Come era emerso all’alba dei servizi anti-manicomiali, “in epoche successive la malattia e i suoi sintomi sono sempre stati influenzati e condizionati dai nuovi orientamenti terapeutici […], noi produciamo una sintomatologia – il modo di esprimersi della malattia – a seconda del modo col quale pensiamo di gestirla, perché la malattia si costruisce e si esprime sempre a immagine delle misure che si adottano per affrontarla”[2]. Il tema delle istituzioni, intese come insiemi di regole, strutture materiali e simboliche, dispositivi normativi formali e informali, aggregati di pratiche, aspettative e discorsi, è stato al centro di una profonda rielaborazione epistemologica proprio grazie all’azione di quelle forze che, nel dare praticamente forma a sistemi di welfare che finalmente rispondessero a bisogni di salute e protezione sociale sul piano universale, si interrogavano su come essi avrebbero interagito (o retroagito) sul complessivo sistema sociale. A questo proposito la sfida portata avanti dai movimenti di tecnici “democratici”, o “anti-istituzionali”, negli anni ’60 e ’70 (in Italia in stretta connessione con i movimenti sociali che, a fianco al movimento operaio, tematizzavano nuove dimensioni esistenziali della vita e della politica – non più separatamente) fu quella di creare un nuovo sapere. Al di là di un frasario marxista, che oggi potrebbe ai più apparire datato, quello che si affermava era che i contesti sociali, le forme di vita organizzate della collettività, avevano un ruolo determinante nel produrre, distribuire, rendere riconoscibili e nominabili le fisionomie di disagio relative a varie fasi della vita e, in modi diversi, a vari gruppi di popolazione. Anche la pretesa più oggettivista e scientifica veniva decostruita (con un’operazione raffinatissima lontana dagli attuali clamori a-epistemologici) riconducendone gli elementi infinitesimali, i singoli “gesti”, ad una dimensione “etica”: quali effetti producevano i saperi nei singoli contesti di vita delle popolazioni? Come i saperi stessi venivano prodotti, in virtù di quali concentrazioni di potere e distribuzione di legittimità? Quali disparità e disuguaglianze, quali subalternità questi saperi tendevano a coprire e a naturalizzare? In questa operazione non c’era nulla di astrattamente teorico. Il “movimento” era principalmente impegnato nel modificare le istituzioni, condizionare le configurazioni del vivere associato, sospendere le tradizionali risposte ai problemi per aprirne l’analisi, far convergere su di essi una presa di parola polifonica, interrogare saperi ed esperienze di solito escluse e silenziate. Si scopriva così che quelle che fino ad allora erano state oggettività si rivelavano abitudini, limitazioni cognitive imposte da una pratica sempre uguale a se stessa, scorciatoie di pensiero determinate da una limitata economia dell’attenzione e degli sforzi che non si azzardava mai a mettere in questione il “già detto” e il “già fatto” per aprire spazio al non ancora.

La costruzione dei servizi di salute mentale territoriale, dei consultori per la salute di genere e riproduttiva, di classi miste in luogo delle vecchie classi differenziali nella scuola, di imprese sociali cooperative sui territori, di politiche regionali territoriali per la realizzazione di servizi di salute pubblica, comunitaria e di prossimità, la messa in discussione (ancora gravemente necessaria) del carcere come discarica sociale e delle politiche che penalizzano l’assunzione di sostanze non sono stati frutto di un velleitarismo irrazionalistico ma una impresa politica che ha coinvolto movimenti, sindacati, gruppi femministi, collettivi di artist*, contestator*, reiett* occupanti di case, psichiatrizzat*, in relazione con professionist*, ricercatori e ricercatrici, personale di enti pubblici, con responsabilità politiche e impegnato nelle amministrazioni locali. In comune (e in un equilibrio sempre delicatissimo) questo gruppo variegato di soggetti aveva la disponibilità a mettere in questione il modo di vivere determinato dall’abitudine e l’idea che, attraverso il processo di “invenzione di istituzioni”, si dovesse cambiare volto alle forme del vivere associato. Si è trattato del lavoro di una minoranza, che per qualche tempo ha saputo abilmente gestire delicate e improbabili condizioni di egemonia, mentre come dicevamo il mondo andava verso la riproposizione di una nuova metasoluzione universalmente valida: quella del mercato con le sue appendici di efficientismo, meritocrazia individuale, predilezione del paradigma del capitano d’azienda su quello della autodeterminazione creativa delle collettività.

Tale paradigma “neoliberale”, che potremmo anche definire “postmoderno”, ha potuto nutrirsi delle aspirazioni all’autonomia, alla libertà e al progresso germogliate nei movimenti definiti “postmaterialisti” una volta che è venuto meno un paradigma culturale integrato e pervasivo, che riuscisse a tenere insieme queste aspirazioni con un progetto politico generale. Non tutto questo è avvenuto di schianto, allo stesso modo, nello stesso momento. Negli anni del cosiddetto “riflusso”, iniziato negli anni ’80, si sono costruite sotterranee alleanze, praticate resistenze, contrattate soluzioni “minime”, apertamente rivendicate come “deboli” nel loro rifiuto di un grande paradigma metastorico, spesso provvisorie ma spesso anche qualitativamente importanti. Nel frattempo, essendosi drammaticamente richiusa la marea della storia sui movimenti, il “politico” si percepiva ormai come “autonomo” dal sociale, suo principio di indirizzamento e messa in forma, nel cui alveo sarebbe presto maturato il new public management orientato a fornire sempre e solo soluzioni preformate e tecnicamente efficaci. Nel frattempo, però le talpe scavavano quei buchi grazie ai quali oggi probabilmente riusciamo ancora a respirare.

Nell’assenza odierna di un ambito in cui discutere eticamente i saperi – non sulla base di un’astrazione teorica ma trasformando sé stessi e le proprie osservazioni sulla scorta di reali sperimentazioni collettive, con la forza di “divenire istituzioni”, il disagio dell’esclusione si esprime solo come anti-sapere. La fredda razionalità dei saperi esperti, quelli che da qualche decennio regolano le istituzioni transnazionali con l’automatismo di un algoritmo, fa il paio con una crisi di legittimità di chi, con il proprio sapere, è vissuto non più come una figura dotata di responsabilità ma solo come un ingranaggio, o peggio un oliatore di ingranaggi, appendice di una macchina le cui finalità e il cui funzionamento restano politicamente imperscrutabili, pur nella luminosa trasparenza della sua struttura. Quale disagio psicologico, quale emergenza di salute mentale può essere affrontata in un mondo in cui le condizioni collettive del vivere, le modalità dell’abitare comune, non possono essere messe in questione? La moltiplicazione di libertà e di forme di emancipazione individuali allude certo a un mondo in cui l’autodeterminazione è una pratica collettiva e si svolge come generalizzazione delle libertà. Ma è pericoloso un mondo in cui la porta di ingresso a queste libertà è ingiustamente angusta, in cui l’accesso alle condizioni di autodeterminazione è motore di una inarrestabile competizione (che è poi una delle principali cause del disagio). L’anti-sapere, che si nutre di voci di odio messe abilmente in bocca agli “infanti”, “così come il padrone mette pala e piccone in mano agli operai” [3], non può coprire il frastuono di una macchina globalmente interconnessa e probabilmente sempre meno sostenibile sui tre piani ecologici: quello ambientale, quello socioeconomico e quello mentale[4]. Il ruolo dei saperi, un ruolo che dovrebbe tornare eminentemente politico, sta nel mostrare che questi tre piani non sono parti di una struttura gerarchica “in sè”, su cui l’homo sapiens sapiens domina grazie alla sua tecnica, ma faglie, possibilità spesso contraddittorie, che si aprono a percorsi locali e a possibilità di incontri trasformativi. In contesti relativi alla salute mentale, questo è il senso della cosiddetta “coproduzione”.

Indicazioni conclusive

Un welfare che si era realizzato normativamente come parziale accomodamento postbellico, principalmente pensato per riequilibrare, pacificare, frenare e trattenere i conflitti, riprodurre condizioni minime di vita comunemente accettate, compensare le disparità territoriali, le disuguaglianze, anche confermando il ruolo degli utenti-target in identità difettive, minoritarie, sempre calibrate sul bisogno di paternalistica assistenza, non è più sostenibile. Non solo economicamente, come già dalla metà degli anni ’70 si poteva intravedere osservando la “crisi fiscale dello Stato”. L’insostenibilità che oggi è in primo piano è etica – etica soprattutto perché ecologica, perché sono state messe in questione le disparità internazionali, perché è venuta meno la sostenibilità di un modello di produzione industriale che arricchiva le società affluenti della golden age a discapito di tutte le altre, perché è divenuta insostenibile la rigida norma di genere attraverso cui ancora oggi il potere pretende di definire la distinzione tra lavoro produttivo e riproduttivo.

Le questioni poste dall’autodeterminazione individuale, se non vogliamo che restino solo un infinito lavoro soggettivo legato alle possibilità competitive di sopravvivere, devono essere ricondotte in un nuovo piano di azione pubblica, informata ad una epistemologia ecologica. I territori, la cooperazione sociale, lo scambio e il confronto polifonico tra esperienze e saperi, sono la base da cui partire per informare un nuovo modello di presa in carico condivisa delle nostre condizioni di esistenza, al di fuori di un modello produttivistico, prestazionale, che inevitabilmente deve sciogliere ogni legame con la ricerca individualistica del profitto come unico mediatore simbolico generale della convivenza, tra umani e con le altre specie.

Proponiamo quindi una serie di temi di lavoro su cui sarà necessario misurare le prossime forme di partecipazione anche in salute mentale.

Un modello di welfare universalistico, realmente universalistico, significa superare la distinzione produttività/improduttività la quale ancora informa le categorizzazioni intrinseche nella definizione dei problemi sociali e delle tecniche e dei saperi con cui ci si dovrebbe occupare di essi. Lo stigma in psichiatria resta ancora molto legato al concetto di improduttività; allo stesso modo le nuove definizioni neurobiologiche enfatizzano concetti come “funzionamento” (la cui efficacia nel descrivere le successioni di stati d’animo e condizioni esistenziali è stata messa in discussione in quanto tende a collocare su un segmento bidimensionale e una “scala” gerarchizzante una molteplicità di caratteristiche e tipologie di “intelligenze” non paragonabili tra loro secondo univocamente determinato dalla capacità di ricoprire ruoli produttivi). Alla base c’è il valore positivo sancito dalla norma legata alla produzione, vale a dire un modello di considerazione della dignità degli esseri viventi nella misura in cui essi sono economicamente valorizzabili. Il concetto di “rifiuto del lavoro”, elaborato dall’autonomia italiana negli anni ’70, sarebbe oggi da riprendere: esso non indicava un generico sottrarsi alla fatica fisica o morale ma la contestazione delle regole per cui la capacità collettiva di cooperare creativamente deve essere sottoposta a un comando funzionale non alla qualità del lavoro e dell’interazione che esso comporta, ma al mantenimento degli squilibri di potere tra chi detiene i mezzi e chi mette a disposizione se stesso. Per fortuna oggi c’è eco di queste elaborazioni nel movimento per il “reddito universale incondizionato di esistenza” (questa è solo una delle sue possibili formulazioni). Ancora per fortuna in Italia una persona che viene da una tradizione di sinistra (quindi tendenzialmente “lavorista”) come Chiara Saraceno, ha dichiarato in modo ben argomentato che non va affatto abolito il Reddito di Cittadinanza (RdC) (una pallida allusione a quello che ci vorrebbe davvero), ma razionalizzato e allargato, anche dopo mesi di campagna diffamatoria con la grancassa di tutti i ai danni dei percettori di RdC, che per un certo periodo aveva attivamente coinvolto anche la sinistra stessa, terribile paradosso.

È necessario pensare a una base di sicurezza universale, ma è necessario pensare anche alle condizioni di lavoro nel servizio pubblico, nel privato imprenditoriale e nel privato sociale, alla qualità politica dei servizi, a quanto operatori e operatrici, persone che nei servizi svolgono un ruolo dirigenziale e tecnico, abbiano la libertà, l’opportunità, la tutela per riflettere politicamente sul proprio ruolo. Come è già accaduto nella prassi delle istituzioni inventate che hanno dato forma alle punte più avanzate e innovative del nostro welfare: per riconoscersi in un lavoro che è prassi politica di trasformazione della vita sociale.

Ricostruire l’azione pubblica. Le categorie diagnostiche che informano la definizione dei disturbi nascono all’interno di consessi per nulla democratici, ove le prassi del metodo scientifico (le cosiddette evidenze) vengono volentieri piegate alle regole del profitto di un complesso farmacologico-industriale che spesso promuove epistemologie semplificatorie a discapito del benessere di chi ne utilizzerà i prodotti finali. La formazione universitaria dei professionisti del campo non solo psy ma anche medico e sociale, oltre ad essere fortemente inadeguata per lo svolgimento di funzioni relative alla salute territoriale, alla public health e all’intervento prossimale e di , risente di logiche professionali corporative improntate a un radicato privatismo, peraltro riconfermato dalle normative che definiscono l’accesso alle professioni e l’accountability delle prestazioni. Ad oggi, i Distretti, le UVM e i Tavoli di committenza delle Aziende USL lavorano influenzati da questa stessa semplificazione nosografica, affrontano “a valle” un bisogno già definito da categorie figlie di epistemologie semplificate, basate sulla separazione dei saperi, non improntate ad un modello di azione pubblica.

Martina Consoloni e Ivo Quaranta hanno recentemente scritto ottime parole conclusive utili anche a queste nostre riflessioni[5]: “l’impegno istituzionale dovrà dispiegarsi nel favorire la partecipazione come fine in sé (ossia per creare spazi di praticabilità per la tessitura di relazioni che abbiano un significato per gli attori coinvolti), anziché come mezzo per dare efficienza ed efficacia alle misure di sanità pubblica. L’attivazione di processi partecipativi sembra infatti non essere un utile mezzo per perseguire altri fini: piuttosto può essere assunta essa stessa a fine di una politica sociale radicata in un’ottica necessariamente non sussidiaria del coinvolgimento comunitario. In questi termini la dimensione della cura può assurgere a cornice concettuale della politica, intesa come azione sulle relazioni di cui siamo costitutivamente parte e da cui dipende il nostro rapporto con il mondo”.

Luca Negrogno

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[1] Facciamo qui riferimento alla tesi di Toni Negri e Michael Hardt: “Con il termine ‘comune’ intendiamo, in primo luogo, la ricchezza comune del mondo materiale – l’aria, l’acqua, i frutti della terra e tutti i doni della natura […]. Per comune si deve intendere, con maggiore precisione, tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e così via” (Hardt, M. e Negri, T., Comune. Oltre il privato e il pubblico, a cura di A. Pandolfi, Rizzoli, 2010: 7-8).

[2] Basaglia, Franco; “Ideologia e pratica in tema di salute mentale”, in “Scritti”, 2, Einaudi, 1981

[3] L’espressione è di Gilles Deleuze, “Gilles Deleuze à Vincennes, 2 (sub. ITA)” trasmesso da RAI 3, disponibile su https://www.youtube.com/watch?v=na21Nhghi_k&t=299s consultato il 10/02/22, minuto 6:50

[4] Il riferimento è alle tre ecologie di cui parla Félix Guattari, “Le formazioni politiche e gli organi esecutivi sembrano totalmente incapaci di cogliere questa problematica [quella della crisi ecologica] nell’insieme delle sue implicazioni. Benché recentemente abbiano iniziato a prendere parzialmente coscienza dei pericoli più visibili che minacciano l’ambiente naturale delle nostre società, in genere si accontentano di affrontare il terreno delle nocività industriali, e ciò unicamente in una prospettiva tecnocratica, mentre soltanto un’articolazione etico-politica – che io chiamo ecosofia – fra i tre registri ecologici (quello dell’ambiente, quello dei rapporti sociali e quello della soggettività) sarebbe capace di far adeguata luce su questi problemi”, F. Guattari, F. La Cecla, Le tre ecologie, Milano, Sonda, 2019

[5] Consoloni, M. Quaranta, I. “Lockdown dall’alto, dal basso: ripensare la cura in tempo di pandemia”, in Civiltà e Religioni, Anno 2021 fascicolo 7, libreriauniversitaria.it edizioni