A commento dell'articolo di sul ruolo dell'associazionismo nei servizi di salute mentale, focalizza l'attenzione sulla necessità di promuovere la piena realizzazione delle persone con psicopatologia.

Ho letto l'articolo di e ne condivido l'analisi.
Le fasi temporali e il presente risentono molto di un aspetto culturale diffuso, anche tra i familiari di chi ha psicopatologie il pensiero che l'accettazione dei problemi sia equivalente a una richiesta di assistenza continua, quasi si passi dall'essere cittadino attivo a malato incurabile e che ci sia un destino ineluttabile.
Negrogno scrive “China pericolosa della selezione dell'utenza e della riconsegna ai singoli della gestione economica del proprio problema”
Spesso la presa di coscienza di una situazione spinge non nella direzione di una recovery del soggetto e della famiglia, anzi. Mi viene in mente il titolo di un testo di Feurstein “non accettarmi come sono”, nel senso aiutami a migliorarmi: lì si trattava di persone con la sindrome di Down, ma penso che la frase possa rendere il senso, cioè prendere in mano le potenzialità di una vita. Da un punto di vista sociale, ancora non è diffusa la cultura del “potere del cambiamento” e integrazione della diversità per una società migliore: c'è sempre una paura ancestrale di ogni variazione del conosciuto, si citano spesso frasi effetto per sottolineare come ormai siamo tutti per l'integrazione , “di Sparta non ricordiamo poeti e artisti perché uccidevano i neonati non perfetti” ma poi gli stessi si meravigliano se qualcuno per strada parla da solo e si evita di rivolgergli la parola,.. eh già… una volta venivano definiti per antonomasia infelici e matti …. e quindi “lungi da me” pensare di avere qualcosa in comune con loro, è la frase comune. Quindi non è solo il sanitario autoreferenziale ma è la società che per perpetuarsi è sicura solo dei percorsi conosciuti.

Ecco, la co-programmazione, la co-progettazione, la co-realizzazione, tanto citata che proviene dall'art. 55 del testo della riforma del terzo settore, vorrebbe spingere verso un cambio culturale, ma non basterà perché c'è una resistenza ideologica dietro. Non è solo un discorso di potere, di visione sempre più sanitaria che sociale, di fondi da spendere e quindi chi eroga decide, ma è molto più profondo il nocciolo della questione, è il non credere che il diverso, la persona con psicopatologie, possa realizzarsi. È la costante negazione di un futuro migliore, basata sulle evidenze del passato, è la mancanza fin dalla diagnosi, del sogno di realizzazione di una vita piena, comunque, al di là delle barriere, oltre le barriere, magari di poco, ma c'è sempre una possibilità. Quando la si nega, si controlla meglio la persona , ma è un controllo sociale effimero, con un costo sociale assistenziale alto. Ora se i medici e gli operatori alla luce delle loro conoscenze non immaginano un futuro migliore e continuano a vedere il buio, come possono i familiari e gli utenti stessi avere questa forza? E se l'obiettivo non è comune, di quale formazione parliamo? Di quale recovery?
In breve: i servizi, e spesso anche le famiglie stesse, accontentandosi di una condizione socialmente accettabile non fanno evolvere le persone verso una migliore realizzazione di sé, oppure cronicizzano i disturbi.
Questo atteggiamento fatalistico sarebbe quello che rende poco efficace non solo il servizio ma anche la co-progettazione del servizio con l'associazionismo.

Ecco ben vengano le posizioni di rottura di atipici, ma se la cultura dominante non è variata c'è ancora molto cammino da fare.
Penso che si debba partire dai giovani genitori, dai giovani familiari, investire su di loro, prenderli per mano con fiducia e guidarli verso una visione aperta, farli impegnare in confronti e progetti nuovi, dare spazio alle nuove generazioni perché illuminino e facciano realizzare sogni. Penso sempre che menti fresche da entrambe le parti, ente pubblico e associazioni, possano scrivere nuove pagine, se si conoscono e collaborano prima di essere contagiati da un passato non più percorribile perché non sufficiente.


Presidente CUFO Bologna