prende spunto dall'intervento di sul nostro blog per portare l'attenzione sulle attività del CUFO e la sperimentazione triennale a Bologna, S. Lazzaro e Budrio.

Il tema proposto da Luca Negrogno, con tanti spunti e provocazioni, a partire dall'affermazione perentoria contenuta nel titolo, non solo mi interessa e mi intriga,  ma mi coinvolge direttamente, anzi mi punge sul vivo, in quanto da anni impegnata in attività varie con utenti dei servizi di Adulti, dentro e fuori dagli spazi del di Bologna.

Dico “attività varie” evitando volutamente quelle espressioni altisonanti e cacofoniche provenienti dalla legge sul Terzo Settore che cominciano per co-  e che appunto sono il nocciolo della questione. Il motivo è che mi trovo più a mio agio se dico ‘fare insieme', un'espressione più semplice, umile e casalinga, che parla di buona volontà, di concretezza e di piccoli traguardi adeguati alle forze disponibili. Co-programmazioneco-progettazioneco-realizzazione, invece, sono parole troppo piene di senso: sembra sempre di capirle, e invece all'atto pratico ti lasciano nell'incertezza… ruoli, limiti, responsabilità… tutto resta da definire, e purtroppo spesso le leggi e le regole cambiano in corso d'opera e gli impegni assunti troppo spensieratamente possono diventare trappole.

Occorrono “atti formali” per non cadere in una “retorica vana”, dice , e non ha tutti i torti. Ma prima di arrivare a questa benedetta formalizzazione, i passaggi sono lenti e tortuosi e a chi non è sempre addentro ai percorsi della politica, come posso essere io, sfuggono molte cose.

È chiaro che l'appetito vien mangiando: più ti addentri nel cuore dei problemi più ti vien voglia di spenderti per cambiare le cose, possibilmente dall'interno, ma il percorso a questo punto si fa inevitabilmente più impegnativo di un semplice e può risultare appassionante, ma anche molto faticoso e a volte frustrante.

Nonostante le tante affermazioni d'intento a livello politico e le direttive regionali molto avanzate, anche in Emilia Romagna la realtà della Salute Mentale è molto meno propensa all'innovazione di quanto si pensi. Questo vale in particolar modo per “ il diritto alla ”.

Diritto, ma… di che cosa stiamo parlando? Mi vien da dire che una diretta dell'utenza nei servizi psichiatrici, se mai fosse applicata sistematicamente e su vasta scala, comporterebbe un cambiamento epocale, anzi, una rivoluzione copernicana… Non sono previste istituzionalmente forme di consultazione democratica, come ad esempio assemblee nei CSM e/o organismi elettivi che rappresentino l'utenza. So di qualche esperienza del genere nata in situazioni circoscritte per iniziativa di qualche dirigente illuminato/avventuroso che se ne assume la responsabilità  (vedi ad es. De Stefani a Trento) ma si tratta di ‘riserve indiane', e c'è sempre il rischio che al cambio di dirigenza si torni indietro.

Come fa allora ad arrivare un riscontro sulla soddisfazione o meno dell'utenza in generale? Certo, ci sono appositi uffici che effettuano una valutazione della qualità, dell'umanizzazione e del gradimento dei servizi mediante indagini mirate e sulla base delle segnalazioni pervenute. È inoltre prevista la presenza di organismi consultivi (come i CCM, la Consulta Regionale Salute Mentale, il CUFO… A questi organismi si accede a richiesta, tramite l'. La voce degli utenti arriva quindi sostanzialmente mediata e filtrata attraverso la vision delle varie associazioni.

Nel CUFO di Bologna sono rappresentate associazioni (ODV, e APS) in prevalenza di familiari e in minima parte di utenti, che afferiscono alle aree della Adulti e della Neuro e su per giù in ugual misura, mentre solo da quest'anno, finalmente, ne è approdata una che fa capo all'area delle Dipendenze Patologiche. Sono stati anche ammessi alcuni utenti della Adulti appartenenti a gruppi informali, ma solo come uditori.  La O del CUFO, cioè la componente ‘operatori', è un corpo a sé stante. In genere gli operatori presenti contribuiscono dando informazioni tecniche ma non esprimono problematiche di categoria o critiche al sistema.

La consultazione del CUFO non viene fatta ovviamente ab ovo, ma solo dopo che le principali decisioni sono state prese nelle ‘alte sfere'. Possiamo considerarla più che altro come un sondaggio di opinioni, una raccolta di idee, riflessioni, stimoli, su cui sarà comunque la Direzione a tirare le fila. Con l'elaborazione di programmi triennali e tavoli di lavoro, il CUFO può anche suggerire i temi su cui ritiene che il servizio debba adoperarsi per migliorare, ma siamo ancora lontani da un qualcosa che possa esser definito come ‘co-programmazione' dei servizi. Questa parola effettivamente è molto impegnativa, me la immagino più riferibile all'organizzazione generale e al livello appunto delle ‘alte sfere'. Nel nostro caso, invece, per essere alla portata delle associazioni è la dimensione del programma che si fa piccola, riducendosi ad ambiti marginali, limitati e minimali rispetto all'insieme.

Bisogna comunque riconoscere che il punto a cui siamo arrivati in tanti anni di impegno è un bel passo avanti rispetto a un “vietato l'accesso ai non addetti ai lavori”, o a un frustrante e sterile muro contro muro. Ricerca di un linguaggio comune, volontà di operare in sinergia, propositività, non sono, oggi come oggi, obiettivi fuori portata (anche se bisogna tener sempre presente che certe conquiste non vanno date per scontate, né dall'una né dall'altra parte). La direzione definisce ‘strategiche' queste sperimentazioni e spinge per farle conoscere e avvalorarle presso gli operatori. La competenza dell' si è fatta nel tempo più ampia e approfondita e l'atteggiamento generale, proprio grazie alla maggiore apertura dell'istituzione, si è fatto meno rivendicativo e più disposto alla collaborazione. Sarebbe eccessivo e ingiusto, però, accusare le associazioni che collaborano di “tendenziale adesione consensuale al modello epistemologico e organizzativo del servizio” o addirittura di essere “nuovi funzionari del consenso”. Ricordiamoci che il nostro difficile percorso ha contribuito a rompere il ghiaccio e il darsi da fare dall'interno fa anche comprendere meglio luci e ombre del sistema e permette di scegliere con maggior cognizione di causa cosa sostenere e cosa criticare.

Le forze del in Salute Mentale sono esigue e certamente inadeguate per poter impostare un rapporto paritetico all'interno dei servizi. Ma bisogna anche intendersi su che cosa significa ‘parità'. Se parliamo di ‘potere', la disparità fra un'organizzazione delle dimensioni dell'AUSL bolognese e lo sparuto gruppetto di piccole associazioni disposte a mettersi in gioco è evidente. Mi viene in mente una Costa Crociere fra le gondole.

In considerazione di ciò, gli attuali tentativi di ‘fare insieme' fra di Bologna e associazioni (progetti , progetto e altre iniziative in campo sociale e culturale), a prescindere dagli intenti strategici della Direzione e dalle buone intenzioni dei partecipanti, presentano un limite ‘strutturale' difficilmente superabile.

La maggior parte delle azioni messe in campo dalle associazioni hanno infatti carattere sporadico, in quanto sfruttano spiragli (un dirigente ben disposto, una situazione locale favorevole…); spontaneistico, perché basati in pratica sulla buona volontà di chi si rende disponibile; limitato, perché dipendono dalle risorse e forze presenti; settoriale, perché non possono esprimersi che in aree determinate (attività sociali e non sanitarie, innanzi tutto); empirico, perché condotti per successivi aggiustamenti, della serie “sbagliando si impara”…

Ciò non significa che queste esperienze non abbiano prodotto in questi anni effetti positivi, per il come per le associazioni, ma soprattutto per un gran numero di utenti, in termini di recovery e di inclusione, e che non sia possibile rilevare, attraverso strumenti di valutazione, la loro efficacia.

È vero che mancano studi scientifici prodotti da (o con)  esperti per esperienza, ma al termine di ogni progetto si scrivono relazioni che testimoniano i pregi e i difetti del lavoro svolto e che potrebbero fornire materiale di studio a chi volesse fare ricerca. Ci sono state  anche delle accurate indagini, come ad esempio per la valutazione d'impatto del programma 2018  in cui la voce delle associazioni è stata raccolta mediante interviste. Nel 2020/21 il tavolo di lavoro del CUFO “Qualità perce-pepite” è stato ideato allo scopo di identificare buone prassi (le cosiddette ‘pepite') da segnalare come modello da diffondere nei servizi. Al tavolo partecipano utenti familiari e operatori. Finora è stata prodotta una scheda descrittiva e valutativa, che sarà sottoposta ai testimoni delle singole ‘pepite', mediante interviste.

Una delle ‘pepite' che saranno prossimamente analizzate per mettere in evidenza gli aspetti positivi riproducibili è un'esperienza interna al CSM Mazzacorati.

L'accidentata storia della sperimentazione triennale a Bologna, S. Lazzaro e Budrio (2016-2018), a cui mi sono dedicata personalmente come referente dell'associazione capofila, è molto istruttiva riguardo alle difficoltà che si incontrano in una co-programmazione, co- progettazione e co-realizzazione fra e associazioni. La messa a punto dei meccanismi di comunicazione interni, la scansione temporale dei finanziamenti per anni solari e soprattutto la definizione dei ruoli e delle responsabilità si sono dimostrati aspetti molto critici. E molto problematico si è rivelato l'aspetto della retribuzione degli , in quanto ci si è trovati ad addentrarsi nel ginepraio della legislazione nazionale sul lavoro.

La competenza degli ‘esperti per esperienza' – nessuno lo può negare – esiste, è un dato di fatto e ha valore di per sé, ma non corrisponde a un titolo di studio e/o a un inquadramento professionale, né la si consegue mediante uno specifico curriculum. Oltre tutto non può essere definita in termini precisi, perché varia molto da soggetto a soggetto. Viene acquisita – si usa dire – mediante un percorso di approfondimento sull'esperienza personale o familiare di disturbo psichico e di recovery, e presuppone l'attitudine e l'impegno a dare aiuto ad altri. Ma perché una competenza possa essere riconosciuta occorre inevitabilmente una certificazione da parte di pubblici funzionari o di un organismo ufficiale di valutazione.

A livello regionale si è cercato recentemente un escamotage, facendo rientrare l'ESP fra le figure professionali esistenti (orientatore sociale) e organizzando appositi corsi. Questo percorso però risulta praticabile e spendibile nel mercato nel lavoro solo per una minoranza. Per tutti gli altri, quelli che intendono proporsi, anche a titolo gratuito, come volontari, cittadini attivi, consulenti, occorre comunque una qualche certificazione/accreditamento per poter operare all'interno dei servizi. Ecco che le associazioni a volte vengono ‘usate' per fornire una specie di garanzia di qualità su questa forza lavoro non regimentata (gratuita o retribuita che sia) e di conseguenza vengono sottoposte a una crescente pressione di controllo burocratico e a eccessivi carichi di responsabilità. Si potrebbe osservare che la stima, come la leadership, si guadagna ‘sul campo', ma le ‘medaglie' devono essere concesse dall'autorità… Al contrario la competenza professionale è di per sé certificata e lo è anche in quei casi in cui risulti carente alla prova dei fatti (ad esempio si può verificare che all'impegno sui libri non si affianchi la necessaria predisposizione all'empatia). Comunque sia, la posizione acquisita dà diritto a un ruolo pubblicamente riconosciuto e a un'autorità che difficilmente può essere contestata (salvo casi abnormi e del tutto eccezionali). Quest'ultimo aspetto vale per tutta la Pubblica Amministrazione, ma ha una valenza in più in , data la funzione di controllo sociale di cui è investita, e gli operatori ne sono fortemente condizionati fin dalla formazione. È evidente che ipotizzare una ‘pariteticità' in senso assoluto fra le due competenze, esperienziale e professionale, non è realistico e può essere anche fonte di seri fraintendimenti e conseguenti delusioni: è senz'altro più corretto parlare di complementarità, fatta salva, naturalmente, la pari dignità come persone. All'interno dei servizi a mio parere è possibile impostare rapporti abbastanza paritetici, ma solo in ambiti ben precisi e delimitati, come ad esempio tavoli di lavoro misti, o situazioni formative in cui la presenza di consulenti esperti per esperienza sia reputata essenziale, o in gruppi di lavoro in cui ciascuno sia chiamato a svolgere un suo ruolo specifico all'interno di un progetto definito. Ma è inevitabile che la posizione di maggior responsabilità dei professionisti li porti in fin dei conti a esercitare funzioni di controllo, e così il rapporto risulta sbilanciato (resta il dato positivo della reciproca conoscenza e contaminazione, che alla lunga può facilitare un cambiamento di atteggiamenti e prospettive da ambo le parti).

Analogamente, soprattutto nel caso di progetti finanziati, non può esserci un rapporto di reale pariteticità fra l'ente che eroga i fondi e l'associazione che li riceve e li gestisce, perché anche qualora si riesca a realizzare un'effettiva co-progettazione e co-realizzazione di azioni condivise, rimane comunque all'ente la funzione di controllo e di approvazione finale dei rendiconti.

Per questo anche a me sembra che in questo sbandierare termini altisonanti come co-programmazione, co-progettazione e co-realizzazione ci sia un po' troppa retorica, poca chiarezza e anche una certa avventatezza.

Ma si spera che le buone intenzioni prevalgano e portino buoni frutti.


Vice Presidente CUFO
(Comitato Utenti Familiari Operatoti) Bologna