La Seconda Conferenza Nazionale sulla Salute Mentale, “Per una salute mentale di ”, promossa dal , si è svolta il 25 e il 26 giugno 2021. Abbiamo deciso di raccogliere gli interventi relativi alla sessione “Il ruolo delle associazioni di utenti, familiari e del volontariato nei servizi di salute mentale” e presentare l'intervento di , collaboratore dell'Istituzione Gian Franco Minguzzi che ha partecipato ai lavori con una sua relazione, ampliato e corredato da una serie di note.

È possibile scaricare il file pdf con la nostra trascrizione di tutti gli interventi della sessione.

Questo lavoro potrà essere utile a sviluppare il dibattito che si svolgerà nei prossimi mesi: nelle settimane successive alla conferenza, il gruppo organizzatore ha deciso di convocare in autunno un'assemblea nazionale del coordinamento salute mentale, per verificare il rispetto degli impegni e lo “stato dell'arte” a tre mesi dalla Conferenza.

 Nel suo intervento introduttivo, Gisella Trincas ha tracciato un'analisi generale delle contraddizioni esistenti rimarcando che “le Associazioni hanno dimostrato in tante parti del nazionale di essere un valore aggiunto fondamentale, non solo nella lotta antiistituzionale, ma nei percorsi di ripresa e di delle persone, nella profonda conoscenza del e nella capacità di azione comune con altre esperienze al servizio dell'intera collettività. La ricchezza di quanto prodotto negli anni, grazie ai saperi esperienziali, va riconosciuta e ne va valorizzata la necessaria e imprescindibile indipendenza”.

L'intervento di , qui riportato in forma sintetica (è disponibile l'articolo completo) riguarda invece i limiti e i rischi della che oggi si attua nei servizi di salute mentale. In considerazione delle sue tesi polemiche, e anche un po' provocatorie, lo presentiamo come “articolo bersaglio”, con l'intento di stimolare un dibattito che avremo piacere di ospitare sul nostro blog.

 

senza potere nei servizi di salute mentale

di

Nonostante 20 anni di sperimentazioni e tentativi di formalizzazione della dell'associazionismo di familiari, utenti e volontari nei servizi di salute mentale, è necessario riconoscere che non esistono risultati scientifici univoci su come si realizzi e quale efficacia abbia la relativamente all'umanizzazione dei trattamenti e alla capacità dei servizi di rispondere ai bisogni della con un approccio che effettivamente produca recovery, sociale e possibilità di esercizio dei di cittadinanza. Nella grande varietà di formule descrittive usate nella letteratura degli ultimi anni, non si è definito un costrutto efficace e dotato di adeguato consenso per tradurre in termini analitici e operativi le varie pratiche che si sono affermate nel campo della , la cui concreta realizzazione risulta caratterizzata da estrema vaghezza e indeterminazione.

Delle varie concettualizzazioni di questi processi l'unica che goda di una consistente letteratura scientifica di riferimento, principalmente in lingua inglese, riguarda le esperienze di “coproduzione”: questo concetto è utilizzabile laddove gli utenti siano effettivamente coinvolti nella progettazione, realizzazione e valutazione di segmenti del servizio, con un ruolo stabilmente e formalmente riconosciuto. La formula organizzativa su cui si è maggiormente sedimentata esperienza pratica e produzione scientifica in questo ambito è quella dei “recovery college” (nel Regno Unito, in Olanda, in Australia, in Nuova Zelanda, negli Stati Uniti, in Israele): si tratta di servizi coprodotti rivolti alla recovery che superano programmaticamente il modello medico della patologia mentale, per adottare un'impostazione innovativa orientata ai principi dell'educazione permanente degli adulti e rivolta alla creazione di percorsi pienamente integrati alla di riferimento, finalizzati all'acquisizione di competenze sociali, non condizionata da un approccio stigmatizzante (il “modello medico”) che indulga sulla disparità di potere e sulla sottolineatura dei deficit dell'utente. In Italia esistono alcune esperienze che, con varie formule organizzative, hanno importato questo modello di matrice anglosassone (Brescia, Trieste, Bologna), non esiste tuttavia ancora una produzione scientifica di rilievo su queste esperienze, tanto meno esistono produzioni scientifiche su queste esperienze che abbiano utenti tra i ricercatori o tra coloro che hanno elaborato i piani di ricerca.

Per quanto esistano in Italia esperienze in cui formalmente dei segmenti di servizio sono coprogettati attraverso tavoli di lavoro in cui siedono associazioni di familiari, associazioni di utenti, servizi pubblici ed enti erogatori di prestazioni, in nessuno di questi progetti esistono processi in virtù dei quali il ruolo degli “esperti per esperienza” sia effettivamente equiparato al ruolo dei professionisti e si sia annullata la disparità di potere negli ambiti che effettivamente definiscono la struttura del servizio preso in considerazione: l'allocazione delle risorse, il modello epistemologico dell'intervento, la distribuzione dei ruoli di coordinamento negli enti che ricevono finanziamenti pubblici per erogare le prestazioni “coprogettate”.

Complessivamente sembra piuttosto che i percorsi di auto-mutuo-aiuto e di supporto tra pari, così come i percorsi coprogettati, abbiano isolato porzioni dell'attività di cura e prevenzione molto limitate, ritagliandosi un ruolo marginale e subalterno rispetto all'attività complessiva dei servizi pubblici. Laddove si sono tentate pratiche di ibridazione tra saperi più incisive, declinate attraverso percorsi formalizzati di degli utenti esperti nelle équipe dei centri di salute mentale, nelle unità di crisi degli SPDC, nell'organico strutturato dei centri diurni, si è trattato di esperienze con un'alta componente di aleatorietà, legate agli umori delle direzioni, incapaci di produrre, direttamente o indirettamente, sedimentazione di conoscenza scientifica a cui fare riferimento.

Ci limiteremo qui a raccogliere e a sviluppare alcune delle riflessioni critiche prodotte in questi anni, con l'intento di fornire una serie di strumenti per la lettura analitica dei movimenti attuali. Le osservazioni più attente hanno messo in evidenza alcuni possibili rischi presenti nelle pratiche di partecipazione realizzate sui nostri territori. In primo luogo va segnalato il rischio complessivo che la partecipazione si risolva in un meccanismo di innovazione parziale, che non mette realmente in discussione il paradigma dei servizi ma ne realizza limitati aggiustamenti, attraverso cui si sviluppano nuovi processi di differenziale di diverse fasce di utenza senza che avvenga una vera trasformazione del rapporto tra servizi e territoriale di riferimento.

Se la partecipazione di associazioni di utenti, familiari e volontari nei servizi di salute mentale non sviluppa un proprio autonomo modello di concettualizzazione dei temi di cui si occupa e non riesce a modificare radicalmente l'impianto epistemologico e organizzativo dei contesti in cui agisce, siamo di fronte ad una situazione a cui può applicarsi la categoria Basagliana dei “nuovi funzionari del consenso”: come la degli anni '70 ha dovuto “ripulirsi” dalla vecchia immagine ormai insopportabile del manicomio, così oggi, attraverso le esperienze di partecipazione, si afferma una nuova immagine dei servizi di salute mentale, oltre i conflitti e l'apparenza di miseria, per permettere a una disciplina esteriormente “ripulita” di continuare ad agire indisturbata nelle sue pratiche di invalidazione, esclusione e legittimazione dell'esclusione nelle pieghe delle contraddizioni sociali più stridenti, in cui la pratica maggioritaria resta irrimediabilmente legata al modello della disparità di potere e della assenza di ogni possibilità di partecipazione.

Inoltre, il rischio che le forme di partecipazione siano solo una riproposizione dei modelli dominanti nei servizi deriva dal fatto che nei contesti locali queste pratiche spesso creano uno scambio, un “trade off”: i gruppi di “coloro che partecipano”, effettivamente ottenendo una maggiore legittimazione della propria soggettività, in cambio mostrano una adesione consensuale al modello epistemologico e organizzativo del servizio.

Laddove l'attivismo nell'ambito della salute mentale avviene direttamente nella società civile e trova spazio negli ambienti accademici, si realizzano invece vere e proprie forme di conflitto tra saperi contrastanti. Ne è un esempio quello che da 10 anni accade nei paesi anglosassoni, dove l'attivismo “neurodivergente”, degli autistici adulti, ha efficacemente contestato (con una notevole produzione scientifica) le associazioni di familiari e di utenti che agiscono come la “longa manus” di una lobby medica orientata ad interpretare varie forme di disagio in maniera strettamente medica: si va dall'ADHD alle relazionali, che dalle associazioni “medicalizzanti” sono sempre interpretate secondo il modello medico e mai secondo il modello sociale di .

Altri esempi di “conflitti produttivi tra saperi” vengono da due esperienze di area anglofona. Il primo è la redazione, nel 2018, del testo “Power Threat Meaning Framework”, licenziato dalla British Psychological Society e prodotto da un team di lavoro in cui professionisti ed esperti per esperienza diretta hanno cooperato per realizzare un modello di comprensione e definizione delle “esperienze inusuali e dei comportamenti disturbati e disturbanti”, alternativo ai manuali diagnostici correnti.

Il secondo esempio viene dall'area statunitense, ma ha già influito sul dibattito scientifico in America del Sud, in Australia e in Europa, e riguarda l'emersione di un campo di saperi nuovi, diffusi in ambito accademico e nelle organizzazioni della società civile, che sta gettando dei ponti tra tre filoni storici di riflessione legati al tema dei civili e dell' delle minoranze marginalizzate: la “neurodivergenza”, i “mad studies” e le elaborazioni dei movimenti degli “psychiatric survivors”.

Complessivamente, le elaborazioni più avanzate e innovative in questo ambito si stanno ponendo il problema di raccogliere, dare voce, visibilità e dignità allo specifico sapere prodotto da coloro etichettati come matti o pazienti psichiatrici, o che si riconoscono e si definiscono come neurodivergenti, disabili relazionali, sopravvissuti o utenti dei servizi: sulla base delle prime produzioni scientifiche in questa direzione sembra che sia aperto un campo proficuo di riflessione non solo sulla , ma in generale sulla vita e le relazioni nella , su come sia possibile mettere in discussione e rifiutare la “norma” in quanto esercizio di potere che riproduce ingiustizie sistemiche, su come sia possibile realizzare forme di giustizia sociale che superino le storiche discriminazioni basate sulla razza, sulla classe e sul genere.

I percorsi di partecipazione possono essere analizzati nell'ambito delle complessive ristrutturazioni pratiche ed epistemiche che stanno attraversando negli ultimi anni il discorso della salute mentale, in cui sempre di più si fa ricorso ai temi dell' sociale, dell' e del superamento dello stigma. Come questi temi generali, suscettibili di svariate declinazioni e al centro di notevoli slittamenti semantici, anche le pratiche operative attraverso cui questi nuovi discorsi si sostanziano sono dispositivi ambivalenti. , integrazione sociosanitaria, prevenzione, assistenza domiciliare, sono dispositivi in bilico che possono svilupparsi come nuove forme di razionalizzazione tecnica, che lasciano immutata l'epistemologia complessiva dei servizi, oppure, se inseriti in un'ottica di salute pubblica e intersezionale, possono aprire i servizi a forme di partecipazione che permettono di agire sui modi di vita dell'intera società: su come funzionano le città, su come si tutelano le differenze e su come si evita la produzione di vite di scarto.

Leggi: Partecipazione senza potere nei servizi di salute mentale di Luca Negrogno