Il commento di , Direttore del della Azienda USL di Bologna all'articolo: “ senza potere nei servizi di ” di .

Il bel saggio dell'amico Luca Negrogno affronta in modo documentato ed acuto il tema della nei servizi di , per come si è sviluppato in Italia nei 40 anni di , proponendone una lettura critica preliminare ad una proposta radicale, volta contemporaneamente a rifondare la epistemologia della disciplina e la pratica della istituzione.

L'autore parte dalla constatazione che, sebbene la attiva di utenti e familiari sia divenuta sostanzialmente una policy sostenuta dal Governo durante la recente Conferenza Nazionale per la (25-26 Giugno 2021), le esperienze sul campo siano ad oggi fragili, frammentate, contraddittorie e poco supportate da evidenze scientifiche. Tra le varie sperimentazioni riportate (Brescia, Trieste, Bologna, Modena, Latiano, rete degli Uditori di Voci…) quasi nessuna secondo l'autore può essere considerata come esperienza realmente dirompente e sovvertitrice del modello istituzionale prevalente, che viene identificato tout-court con il modello biomedico. Si tratta per lo più secondo Negrogno di prove di mutualismo, di avvicinamento alla istituzione, di adesione ad un modello “ripulito” da parte di una istituzione benevola, che per altro riprodurrebbe gli schemi di esclusione e marginalizzazione di tutte le tradizionali istituzioni psichiatriche. In sostanza, falsi movimenti, senza reale capacità di incidere a livello teorico e pratico su una pratica che resterebbe prevalentemente repressiva, che fonderebbe la sua forza su un sapere scientifico biomedico, su trattamenti intrusivi e coercitivi, su modelli di intervento stigmatizzanti ed escludenti.

A queste esperienze Negrogno contrappone alcuni esempi di chiaro e stridente conflitto tra saperi che promettono di costituire una seria sfida al potere della istituzione psichiatrica. Il movimento degli autistici “neurodivergenti” che si contrappone alla cultura “abilista” di famiglie e professionisti per le terapie comportamentali, il “Power Threat Meaning Framework” della British Psychological Society, i “mad studies” statunitensi ed in generale la cultura dei “psychiatric survivors” che recupera in chiave moderna le chiavi di lettura antipsichiatrica degli anni '60 e '70. Queste esperienze sembrano coerenti con altre linee di pensiero e di azione che interessano le lotte per la emancipazione di altre popolazioni a rischio di discriminazione: gli studi post-coloniali, quelli trans-femministi, la sfida “intersezionale” che lega concettualmente e metodologicamente la lotta contro le disuguaglianze di razza, genere, classe, condizione di disabilità, di malattia etc… Questa sarebbe la vera novità, la scintilla della rivoluzione che porterebbe a fare dei servizi pubblici luoghi rinnovati nel sapere e nelle pratiche, che ripudiano il modello biomedico per produrre un modello di , che legge le diseguaglianze ed invece di riprodurle neutralizza e le trasforma in diversità.

Nelle sue conclusioni l'autore propone che le esperienze “deboli” sin qui accumulate servano da punto di partenza per ricerche scientifiche e per costruire un modello sociale e politico di orizzonte ben più vasto della sola realtà psichiatrica, che unisca e potenzi “tutte le voci critiche che puntano sul ruolo dei determinanti sociali, delle condizioni di subalternità sulle faglie di razza, genere e classe, delle possibilità di leggere alternativamente le condizioni esistenziali e di neuropeculiarità che possono caratterizzare l'esperienza umana”. Infine rivolge un invito alle associazioni di utenti e familiari a prendere le distanze “dalle amministrazioni che sostengono la piena adesione alla ideologia aziendalistica della sanità” ed a superare la “neutralità”.

Dobbiamo essere riconoscenti a per avere così sintetizzato e sistematizzato una riflessione sulle relazioni di potere che, a partire dalle dinamiche interne dei Dipartimenti di , si allarga alla intera civile passando per le istituzioni sanitarie e le pubbliche amministrazioni, da una prospettiva “militante” di movimento a difesa dei e di costruzione di una società più equa. Un motivo particolare di riconoscenza consiste poi nel fatto che la sua chiara esposizione mi consente di riflettere ed esprimere a mia volta considerazioni critiche rispetto a questa impostazione logica che, in maniera meno esplicita di quanto non faccia Luca, pervade da molto tempo la discussione istituzionale in tema di .

L'idea che la del 1978 sia una riforma incompiuta, oppure una promessa non mantenuta, oppure una occasione fallita è tutt'altro che rara nella pubblica opinione, nei movimenti di tutela dei , tra gli operatori della salute mentale. Come ho scritto in altre sedi ciò è in netta contraddizione con tutti i parametri oggettivi che possono essere portati a valutazione di un processo lungo quarant'anni: miglioramento delle condizioni di vita, di inserimento lavorativo, di aspettativa di vita media, riduzione dei ricoveri obbligatori di oltre il 60%, superamento degli OPG e tanti altri aspetti ancora che fanno dell'Italia, al netto delle rilevanti differenze territoriali e dei preoccupanti depauperamenti di risorse degli ultimi dieci anni, una anomalia rilevante nel panorama internazionale. Ipotizzo che buona parte della “stanchezza” o della delusione rispetto ai risultati della Riforma Italiana consista proprio nel parametrarla su un traguardo che assomiglia molto a quello delineato da Negrogno: un processo della società civile che avrebbe dovuto fare delle pubbliche istituzioni italiane delle macchine di distruzione delle diseguaglianze, dei dispositivi capaci di risolvere i conflitti legati alla malattia mentale senza coercizioni e senza intrusioni nella sfera fisica (farmacologiche o contenitive), dei motori di una riforma sociale più ampia che desse il via alla “deep democracy” in tutti i campi, locali, regionali, nazionale e globali. Se è questo il significato che si attribuisce alla legge 180, è ovvio che si resti delusi ed è ovvio che continuando a proporre questo schema concettuale è alta la probabilità di sperimentare altre delusioni in futuro.

L'impostazione “movimentista-intersezionista” cui dà voce Negrogno presenta a mio avviso alcune contraddizioni che meritano di essere approfonditamente discusse, partendo proprio dal tema della di utenti e familiari in salute mentale.

Comunque la si voglia considerare, la ragion d'essere di una istituzione psichiatrica al giorno d'oggi consiste per permanere di conflitti che sono collegati a ciò che chiamiamo malattia mentale, conflitti talmente complessi e dolorosi da indurre la società ad organizzare una istituzione specifica deputata ad occuparsene. La pratica psichiatrica consiste esattamente in questo e può essere fatta in vari modi, dai più disumani e brutali a quelli più qualificati ed orientati al rispetto dei umani. Molti di noi ritengono che l'ingresso di utenti e familiari nella vita delle istituzioni psichiatriche, in forma singola od associata, sia una novità degli ultimi trent'anni, che aiuti ad orientarne la pratica in senso civile, umano e professionale. Non annulla l'esistenza dei conflitti, non fa venire meno la ragion d'essere della istituzione, aiuta la istituzione ad innovarsi, a migliorare in trasparenza, aiuta i cittadini utenti che si impegnano a recuperare padronanza dei processi di cura che li riguardano ed a mantenere un ruolo attivo e partecipe. Certamente fino ad oggi nella situazione italiana hanno prevalso le forme di collaborazione e di condivisione, non certo le critiche anti istituzionali (che per altro nei primi due decenni dopo la Riforma avevano preso le forme di un associazionismo delle famiglie fortemente avverso alla deistituzionalizzazione). Gli esempi anglosassoni che Negrogno porta ad esempio per una reale e serrata critica antistituzionale mi fanno pensare che questi siano maturati in quei contesti sulla spinta di due fattori: da un lato la natura più spiccatamente biomedica delle istituzioni psichiatriche di quei paesi, dall'altro una cultura civile del conflitto meno tesa alla sua composizione rispetto all'Italia. La Riforma italiana, che ha generato servizi meno direttivi e coercitivi, potrebbe avere orientato il contributo di utenti e familiari in senso più propositivo collaborativo rispetto a Paesi in cui la contrapposizione e la cultura “adversarial” è più pronunciata. C'è stato uno sforzo per dare corso alle pratiche di soggettivazione e coinvolgere (non ovunque e non pienamente) utenti e familiari nei processi istituzionali. A tale proposito occorrerà anche interrogarsi sul perché le realtà in cui queste esperienze sono maturate sono più o meno tutte nel Centro-Nord (con la rilevante eccezione di Caltagirone e di Latiano), perché abbiano visto la contemporanea attivazione di utenti e familiari, perché abbiano visto partecipazioni variabili e contraddittorie del Terzo Settore cooperativo e tante altre domande ancora.

Segnalo che recentemente si è tenuta la prima Conferenza Nazionale degli Utenti e Familiari Esperti nel Supporto tra Pari che ha visto la di circa 250 persone, oltre la metà delle quali utenti, con lo scopo di redigere la Carta degli per dare risposta in maniera precisa agli interrogativi con cui Negrogno apre la sua riflessione: cosa è il sapere esperienziale, chi sono gli , che cosa fanno, come viene riconosciuto formalmente il loro impegno. Segnalo anche che negli intensi lavori preparatori si è sviluppata una interessante discussione tra chi ritiene che utenti e familiari si debbano separare fondando associazioni diverse e con meccanismi differenziati di rappresentatività e chi ritiene che debbano proseguire un cammino comune nella dialettica con i servizi. Segnalo anche che l'associazionismo delle famiglie sta mostrando segnali di difficoltà, legate alla scarsissima adesione di nuove generazioni di familiari alle tradizionali associazioni, mentre si assiste ad un interessante sviluppo delle associazioni di utenti, che sembrano avere finalmente trovato una solidità sufficiente per autorappresentarsi. Che queste siano tappe di un percorso di crescita culturale significativo e interessante è innegabile, classificare tutto ciò come operazione di ripulitura della immagine istituzionale della repressiva mi sembra per lo meno riduttivo, se non francamente sbagliato. I Dipartimenti in cui queste cose sono avvenute hanno investito risorse emotive, umane e talvolta finanziarie per sostenere questi percorsi, che sono tutt'altro che conclusi e che vedremo dove porteranno.

Individuo poi un'altra potenziale contraddizione nel discorso movimentista-intersezionista, il quale sembra da un lato ribadire il carattere politico della azione istituzionale, ma dall'altro sembra poco disposto ad accettare alcuni orientamenti istituzionali scaturiti dai processi politici democratici. Le istituzioni sanitarie sono organismi tecnico-professionali posti sotto il controllo delle autorità politiche nazionali, regionali e locali, secondo schemi sostanzialmente immutati dal 1992 e fondamentalmente avviatisi con la riforma del 1978. E la primazia politica rispetto a quella è un dogma che ha ispirato tutto il processo di che ha portato alla chiusura dei manicomi. Ma la politica ha le sue regole e fa delle istituzioni democratiche dei luoghi di mediazione e di composizione di istanze molto diverse. Le Aziende sanitarie e le istituzioni psichiatriche non fanno eccezione. Su di esse convergono istanze le più svariate, da quelle più securitarie a quelle più libertarie. Chi gestisce complessi dipartimenti sa bene a quanti ascolti occorra dare corso ed a quali sintesi occorra procedere per poter dare un senso democratico, partecipativo, emancipativo alla azione istituzionale. Il rafforzamento della presenza della associazioni di utenti e familiari nelle istituzioni è un formidabile asset per contrastare le derive neomanicomiali che sono tutt'altro che sparite dal cuore vivo della società. Ed in democrazia nulla è scontato, può anche succedere che prevalga una linea politica che riapra le porte ad una reistituzionalizzazione più o meno esplicita, o che voglia cambiare rotta rispetto ad esperienze avanzate e di successo, come la recente esperienza triestina ci insegna. Anche in questo caso, i Dipartimenti che hanno promosso forme partecipative e collaborative, non hanno certamente fatto un'opera di maquillage, ma hanno cercato di consolidare delle conquiste e di porre le premesse per ulteriori cammini evolutivi.

Infine la scienza. Osservo con sconforto il riproporsi nel dibattito odierno una contrapposizione tra psichiatri scientisti che invocano una nuova epistemologia (neuroscientifica) e movimenti antagonisti che invocano una nuova epistemologia dei determinanti sociali. Mi pare riproduca la sterile diatriba teologica “nature-nurture” che ha avvelenato la per decenni ed alimentato i compensi di conferenzieri e saggisti. La come disciplina è una scienza debole, che pretende di costruire delle antropologie sensate, ma il meglio che possa fare è accompagnare le pratiche istituzionali con quanto si sa sul corpo, sulla mente e sulle relazioni sociali. Nello studio delle malattie mentali c'è spazio per ogni conoscenza che vada dalla neurobiochimica cerebrale alle politiche internazionali sulle migrazioni, passando per la clinica e la valutazione delle pratiche inclusive. Diffido di chi invoca la scienza a sostegno di rivoluzioni istituzionali. Semmai è il contrario, è sui cambiamenti istituzionali che va fatta ricerca e vanno costruite esperienze ed evidenze. Anche in materia di partecipazione ed auto rappresentazione degli utenti, il cui cammino è tutt'altro che disprezzabile anche da noi, molto promettente, sicuramente affascinante e tutt'altro che concluso.

Direttore Dipartimento
Salute Mentale e Dipendenze Patologiche
Azienda USL di Bologna