Le politiche della . Il Modello Sociale della di Michael Oliver, Prefazione e traduzione di , Ombre corte, Verona, 2023
Uscita dopo trentatre anni la traduzione italiana di The Politics of Disablement di Mike Oliver (1945-2019), libro manifesto del Modello Sociale inglese della , grazie al lavoro di filosofo di formazione e attento studioso dei e dei Critical Autism Studies. Oltre alla traduzione, Valtellina ha scritto una prefazione che ne riattualizza il contenuto e la portata politica. Proponiamo qui una prima recensione curata da per ragionare sugli sviluppi del modello sociale e le politiche della ancora in atto.

Pubblicare a trentatre anni dalla sua uscita, nel 1990, la traduzione italiana di The Politics of Disablement di Mike Oliver (1945-2019), è un progetto per il quale per lungo tempo saremo grate e grati ad , filosofo di formazione e attento studioso dei e dei Critical Autism Studies.

Libro manifesto del Modello Sociale inglese della , The Politics, meritava da anni di divenire patrimonio della stampa italiana. Rileggerlo oggi impone ai suoi lettori di riattualizzarne il contenuto e di ragionare sulle trasformazioni, sopravvenute, di quella istanza politica che lo aveva generato, poiché, come scrive Valtellina nella sua necessaria prefazione, l'approdare in accademia ha eroso la cinghia di trasmissione tra teoria e pratica politica dei movimenti, impoverendo inoltre il lavoro emancipativo collettivo. “Da questa idea – scrive Valtellina – parte l'intenzione di proporre la traduzione di un libro che ormai è nella storia della teorizzazione sulla . Le intuizioni del Modello Sociale, l'affermazione dell'urgenza di uno sguardo politico articolato in risonanza con la soggettività collettiva di riferimento, sono ancora a monte degli interventi di autori contemporanei come Dan Goodley e Roddy Slorach. A volte, tornare indietro, ripensare alla genesi di un discorso, è necessario per riarticolarlo secondo prospettive capaci di pensiero e progettualità condivise, e non solo di produrre paper per riviste di prima fascia con i riferimenti giusti per propiziarsi una carriera minore nell'istituzione accademica” (Valtellina 2023: p. 22).

L'ironia della “carriera minore” risuona familiare a studiosi di diverse discipline che sperimentano una sorta di segregazione intellettuale per aver fatto della l'oggetto dei propri studi, ambito periferico come nucleo di preoccupazione e fondamentalmente ghettizzato dalle università (Devlieger et al 2016). Scrive Oliver, nella sua introduzione: “La questione della disabilità e le esperienze delle persone disabili sono state sempre tenute in scarsa considerazione nei circoli accademici. Sia la questione che le esperienze sono state emarginate, e solo in discipline quali la medicina e la è stato dato alla disabilità un posto rilevante. Sfortunatamente ciò è stato controproducente, perché ha fatto in modo che la disabilità fosse vista essenzialmente come una questione medica e che l'esperienza della disabilità fosse condizionata da una serie di processi di adattamento psicologico”.

A distanza di anni, e quantomeno in Italia, nonostante la diffusione dei , queste parole riecheggiano purtroppo attuali se solo le riflettiamo, a titolo esemplificativo, nelle pratiche ordinarie dentro i servizi socio-sanitari, nei sistemi educativi, negli immaginari collettivi. Quanto ancora le prassi traggono origine dai modelli biomedici? Quanto ancora la postura caritatevole influenza atteggiamenti, pensieri e azioni? Il dibattito scaturito dal modello sociale inglese sembra non essere affatto terminato, rimetterlo al centro oggi è un'operazione utilissima, che necessita, tuttavia, di una opportuna storicizzazione.

Articolato in otto capitoli, il testo cerca di dare risposte a questi quesiti, collocando le spiegazioni nelle maglie di una cornice marxista, nella lettura “inglese” di Gramsci e Althusser. Ma andiamo con ordine, il “libretto rosso” di Oliver ha avuto appunto il merito di aver indirizzato la questione nella sua intrinseca dimensione politica, indicando chiaramente le “coordinate emancipative”, come le definisce Valtellina, che dovrebbero guidare la pratica di una “teoria sociale della disabilità”. Ecco, leggerlo o rileggerlo oggi ha senso per reimpostare appunto le basi di una “progettualità condivisa” (come giustamente propone Valtellina nei suoi intenti) e riaprire uno sguardo critico sul ruolo sociale dei processi disabilitanti in atto, contro una visione individualistica, essenzialistica o biomedica della disabilità a favore di una sua calibratura su istanze di natura contestuale e quindi variabili dal punto di vista sociale e culturale.

Il Modello Sociale inglese ha rappresentato un approccio alternativo alla disabilità che ha fatto storia, ha esplorato le barriere fisiche, le norme sociali, le limitazioni istituzionali e le pregiudiziali culturali che perpetuano l' e l'emarginazione. Ha avuto un impatto significativo sulle politiche pubbliche e sulla percezione della disabilità nella società e ha rappresentato una pietra miliare nel movimento per i delle persone disabili, costringendo l'Organizzazione Mondiale della Sanità a confrontarsi, seppure al ribasso, con la distinzione impairment/disability.

Una delle principali tesi del libro è che la disabilità non è una caratteristica individuale intrinseca delle persone, ma piuttosto una costruzione sociale. Decostruita la prospettiva medica, che riduce la disabilità a un problema individuale di malfunzionamento da correggere, curare o riabilitare e che la ancora narrativamente ad un affare privato, derubricato anche il modello caritatevole, Oliver evidenzia come sia l'impairment sia la disability siano prodotti culturalmente. Sfida così il “modello medico” e gli contrappone il “modello sociale”, secondo il quale le disabilità sono il risultato di barriere sociali, ambientali e politiche che impediscono alle persone di partecipare pienamente alla vita sociale. Attraverso un'analisi approfondita, Oliver esamina le strutture sociali e le pratiche discriminatorie e incalza con domande retoriche sulla necessità di un cambiamento sociale verso politiche inclusive. Centrali nella visione di Oliver sono il ruolo della soggettività collettiva dei disabili, la necessaria interazione della elaborazione teorica e pratica, la lotta all'abilismo, come un -ismo tra gli altri. L'analisi della condizione disabile a livello socio-economico, politico e culturale si muove tra le pagine dietro un leitmotiv costante che sembra invitare il lettore a chiedersi e quindi a scoprire: “perché è successo?”. Perché il modello medico ha avuto così campo largo? Perché la disabilità è stata individualizzata e medicalizzata all'interno della società capitalista? Perché si è imposta una visione essenzializzata nell'ordine della tragedia personale? Perché il “principio di normalizzazione” (Wolfensberger, 1972) ha trovato ampio spazio di manovra, seppur rinominato come una “valorizzazione sociale dei ruoli”, dal momento che “raddrizzare a martellate il legno storto dell'umanità cominciò a sembrare poco etico” come ironizza, di nuovo, Valtellina (p. 10). Perché, infine, oltre gli esempi di Oliver, l'inspiration porn (Stella Young, 2014), la spettacolarizzazione della disabilità, e la sua oggettivazione ispirazionale è così diffusa?

Valtellina nella sua prefazione ripercorre la genesi del modello sociale, a partire dallo scritto di Hunt del 1966, Stigma: The experience of disability e quello sempre curato dallo stesso Hunt, A critical condition, fino alla nascita di UPIAS (Union of the Physically Impaired Against Segregation) da un annuncio di Hunt sul Guardian, e ai Fundamental principles of disability, proclamazione ufficiale del Modello Sociale inglese. Ne sottolinea la radicalità, la dimensione provocatoria di sfida alle egemonie sociali strutturali. E riporta la sistematizzazione compiuta da Oliver – in Understanding disability del 1996 – degli assi portanti dello sguardo medico e di quello sociale che vede contrapporsi due visioni su cui ancora oggi poter leggere le pratiche ordinarie legate alla disabilità e che si riportano qui come specchio analitico su cui rifletterle: Teoria della tragedia personale / Teoria dell'oppressione sociale; Problema personale / Problema sociale; Trattamento individuale / Azione sociale; Medicalizzazione / Auto-mutuo aiuto; Dominio professionale / Responsabilità individuale e collettiva; Expertise / Esperienza; Aggiustamento / Affermazione; Identità individuale / Identità collettiva; Pregiudizio / Discriminazione; Attitudini / Comportamento; Cura / ; Controllo / Scelta; Politiche amministrative / Politiche affermative; Adattamento individuale / Cambiamento sociale.

Tra gli sviluppi del modello sociale – ricorda ancora Valtellina – va menzionata la generazione successiva al gruppo storico degli anni Settanta e Ottanta, formata da Colin Barnes, Len Barton e Geof Mercer. Il dibattito accademico sembrò migliorare negli anni Novanta grazie anche al testo collettivo Disability Discourse (Corker e French 1999). Ma comincia anche a farsi strada la richiesta di un superamento del modello sociale come sostenuto soprattutto da autori come Tom Shakespeare. Per la netta separazione dell'aspetto biologico dalle componenti sociali (la dicotomia impairment/disability), per la scarsa considerazione delle riflessioni postmoderne (Shakespeare, Corker 2002), così come per la negazione dell'esperienza problematica del deficit o per la non attenzione al capability approach, il modello sociale è stato più volte criticato (Shakespeare, Watson 2000). La “pretesa” del suo superamento, come la definisce Valtellina, si poggia innanzitutto sulla contrapposizione al modello sociale americano del minority group, che combina l'analisi marxista (propria anche del modello inglese) ai civili e costituzionali dentro logiche affermative di gruppi umani discriminati in termini di razza, cultura, genere ed età. La critica di Shakespeare, respinta duramente da Valtellina, sottolinea inoltre come la rigidità del modello essenzializzi due piani di realtà (quello medico e quello sociale), laddove quest'ultima è una maglia interconnessa di dimensioni corporee, psicologiche, culturali, sociali, economiche. “Viene da consigliargli la lettura di The politics of disablement…” chiosa Valtellina che sottolinea come il modello sociale inglese preveda inoltre l'esplicitazione di una soggettività autonoma, collettiva e rivendicativa, mentre il modello di Shakespeare ribadisce la mediazione relazionale di altre soggettività preposte alla sua gestione.

La questione è però forse un po' più complessa e al di là della critica di Valtellina (che viene ribadito dall'autore non debba essere interpretata come un attacco personale) apre ad altre considerazioni. Il modello sociale ha comportato una non più rimandabile critica della medicalizzazione. Tuttavia la relazione tra limiti incorporati e la discriminazione sociale rimane complessa. Stretti tra un'ontologia biomedica e un'ontologia socio-economicista, il modello medico e il modello sociale rischiano talvolta di non mettere in completa discussione il concetto di corporeità, lasciando il corpo all'interno di una definizione bio-psico-sociale, negandogli il ruolo che gli spetta nella formulazione di esperienze. Di natura profondamente relazionale (Rapp, Ginsburg 2013), la disabilità è un concetto che si modifica mentre ci pensiamo, costringendoci ad adattare le nostre conversazioni nel vocabolario e nella retorica a seconda del mondo della disabilità in cui abitiamo o ci rivolgiamo. La comprensione della disabilità inizia con l'attraversare lo spazio-tempo del corpomente delle persone disabili e con l'apprezzamento dell'esperienza-disabilità (Kasnitz 2020, Hofmann et al 2020). Shakespeare ha evidenziato come il modello sociale potrebbe non essere sufficiente a catturare pienamente la complessità delle esperienze delle persone con disabilità. Ad esempio, il dolore cronico o la compromissione cognitiva possono presentare sfide che vanno al di là delle sole barriere sociali. Viene inoltre sollevato il tema delle disabilità gravi e complesse, che possono richiedere interventi individualizzati e specifici. L'approccio materialista alla disabilità col suo modello sociale “forte” (che prevede l'eliminazione piena delle barriere disabilitanti attraverso il cambiamento sociale) fa però da contraltare al determinismo biomedico, sembra quasi spingersi a dire Shakespeare (2017). Le dicotomie non aiutano la ricerca, nè i movimenti sociali, ma sottolineano la variabilità culturale e storica dei modi di classificare e descrivere le menomazioni: è la «menomazione che si lega ai fattori sociali, mentre la disabilità è quasi sempre intrecciata agli effetti della menomazione. La menomazione in realtà viene vissuta solo all'interno di un contesto sociale» (ivi: p. 43).

Di qui la necessità di aggiornare cronologicamente la critica mossa da Oliver alla sociologia e all'antropologia dei suoi tempi, colpevoli di non aver messo in discussione il dominio della struttura medica e di essersi limitate a “offrire resoconti descrittivi e ateorici” (Oliver p. 27). Piuttosto in questi anni sono stati numerosi gli studi che hanno dato vita ad un ampio dibattito sul corpo culturale inscritto in una storia sociale, riconoscendo la disabilità dentro mondi costruiti e agiti culturalmente (Devlieger, Rusch, Pfeiffer 2003; Devlieger, Miranda-Galarza, Brown, Strickfaden 2016). Centrale è stata la pubblicazione di Disability and Culture curata dalle antropologhe Benedict Ingstad e Susan Reynolds Whyte (1995) che ha aperto la strada a ricerche che a fronte di analisi qualitative, hanno descritto le sfaccettature del fenomeno, dando anche voce all'esperienza della disabilità da parte degli attori sociali. Importante in tal senso anche la ricerca storica che ha dimostrato l'importanza degli studi genealogici per problematizzare le strutture trans-storiche sottese e disarticolare diacronicamente l'habitus dell'inferiorizzazione: poiché «dire disabilità non è cioè designare semplicemente un oggetto, ma è un'operazione già carica di significati, valori, semantiche» (Schianchi 2019).

È sicuramente compito delle scienze sociali trasformare in domande la porosità delle contraddizioni e violenze inscritte nella storia, e questo Oliver & Co. ce lo hanno ben dimostrato, impostando la strada anche per quella emancipatory research che oggi dà importanti frutti se si realizza attraverso un mutamento radicale nelle relazioni sociali e materiali della ricerca. Si consideri per esempio il già citato Goodley e la sua ricerca emancipativa nell'ambito delle disabilità intellettive. Goodley sottolinea l'importanza di considerare le esperienze e le voci delle persone con disabilità nella ricerca e nella pratica, promuovendo un approccio che ponga l'accento sulle esperienze soggettive e sull'autorappresentazione delle persone con disabilità.

Tornando a The Politics, come sottolinea Oliver e come riportato anche nella quarta di copertina, il nucleo centrale del testo sviluppa “una teoria sociale della disabilità, una teoria che comunque deve essere collocata all'interno dell'esperienza delle stesse persone disabili e dei loro tentativi, non solo di ridefinire la disabilità, ma anche di costruire un movimento politico collettivo e di sviluppare servizi commisurati ai propri bisogni, definiti da loro stessi”. Il testo di Oliver nasce, come autobiograficamente dichiarato, dalla marginalità e rischia, secondo il suo autore, di essere considerato troppo semplicistico dagli accademici o troppo complesso e mistificante dalle persone disabili, espressione quest'ultima (disabled people) – sia detto qui per inciso – usata preferibilmente in tutto il volume al posto di “persone con disabilità” secondo un approccio consolidato che non considera la disabilità come un'appendice (“con” la quale si vive), ma una parte essenziale dell'identità. Non si vuole qui riprendere la “stanca e sterile” contrapposizione come la definisce in maniera un po' troppo tranchant (sigh!) Valtellina tra linguaggio person-first / identity-first (p. 21), quanto sottolineare con Oliver che: “Un'adeguata teoria sociale della disabilità come vincolo sociale deve rifiutare le categorie basate su costruzioni scientifiche, mediche o sociali e avulse dall'esperienza diretta delle persone disabili. Tutte le persone disabili sperimentano la disabilità come vincolo sociale, sia che queste restrizioni si verifichino come conseguenza di ambienti loro inaccessibili, di nozioni discutibili su intelligenza e competenza sociale, dell'incapacità della maggior parte della popolazione di usare il linguaggio dei segni, della mancanza di materiale per la lettura in braille o di atteggiamenti pubblici ostili nei confronti delle persone con disabilità non visibili” (p. 31).

Se nel primo capitolo la questione centrale sollevata riguarda il significato delle definizioni ufficiali (e aggiungerei vernacolari) e del loro ruolo nelle “politiche del significato”, il secondo capitolo si focalizza sulla concezione individuale della disabilità che “come categoria può essere compresa solo all'interno di un quadro che suggerisca che è prodotta culturalmente e strutturata socialmente” (p. 53). La configurazione si arricchisce nei capitoli successivi, dove il ruolo economico delle persone disabili si dimostrerà non funzionale alla logica del capitale, determinando una stretta connessione tra ideologia, individualismo e medicalizzazione, che si muove parallela all'ascesa della professione medica nel sistema capitalistico. E diventano centrali quindi le risposte delle e il loro ruolo nel creare una discriminazione istituzionalizzata (p. 110), e nel riprodurre, piuttosto che nel ridurre, la dipendenza attraverso quell'insieme di “altri significativi”, ovvero “quella vasta gamma di professionisti che scrivono o fanno cose sulle persone disabili. La loro visione del mondo della disabilità, pesantemente influenzata dalla professione medica, individualizza a sua volta anche la disabilità e rafforza l'immagine culturale meno che umana delle persone disabili” (p. 91). La medicalizzazione della disabilità ha comportato, oltre l'enfasi per la diagnosi clinica, l'individuazione non solo del trattamento, ma anche della forma di vita delle persone, la creazione discorsiva di soggettività dentro politiche disabilitanti.

Scrive Oliver: “Sono molti i modi in cui la dipendenza viene creata attraverso la fornitura di servizi professionalizzati. I tipi di servizi che sono disponibili, in particolare le strutture residenziali e diurne con i loro regimi istituzionalizzati, il loro fallimento nel coinvolgere significativamente le persone disabili nella gestione di tali strutture, il trasporto degli utenti in mezzi specializzati e la rigidità delle attività di routine che vi si svolgono, servono tutti a istituzionalizzare le persone disabili e a creare dipendenza. Anche se negli ultimi anni sono stati fatti alcuni tentativi per affrontare il problema della creazione di dipendenza in queste strutture, rimane purtroppo vero che il potere e il controllo continuano a rimanere al personale professionale. Molti servizi comunitari sono forniti in modi simili e rafforzano la dipendenza, alle persone disabili viene offerta poca scelta riguardo agli ausili e alle attrezzature, gli orari in cui i professionisti possono intervenire per aiutare in questioni come andare in bagno, vestirsi o preparare un pasto sono limitati e la gamma già limitata dei compiti che i professionisti possono svolgere è ulteriormente limitata a causa di confini professionali, requisiti del datore di lavoro o pratiche sindacali. Il rapporto professionista-cliente può essere esso stesso causa della creazione di dipendenza e il linguaggio stesso usato suggerisce che il potere è distribuito in modo ineguale all'interno di questa relazione” (p. 117, 118). Sono parole degli anni Novanta: qualcuna o qualcuno pensa di poterle non sottoscrivere oggi?

I capitoli conclusivi prendono in considerazione la delle persone disabili a “politiche contro egemoniche” (p. 155) e alle attività di gruppi informali, fino a ragionare, forse con troppo ottimismo, dell'ascesa del movimento dei disabili dentro il più ampio dispiegarsi di movimenti sociali della fine del ventesimo secolo.

Nel suo post scriptum dal titolo “Il vento soffia”, Oliver dichiara che questo libro “può essere letto sia pessimisticamente che ottimisticamente”. Fa una diagnosi chiara: una visione dominante della disabilità come un problema creato dalle forze produttive, dalle condizioni materiali e dalle relazioni sociali del capitalismo. Una prognosi a lungo termine: “le possibilità di trascendere queste forze, condizioni e relazioni sono quindi intrinsecamente legate alle possibilità di trascendere il capitalismo stesso. Queste possibilità non sembrano potersi materializzare nel prossimo futuro”. Ma il vento soffia con la nascita di un movimento “forte, propositivo e internazionale”.

Se da più parti il modello sociale è stato acquisito, ma superato – scrive Schianchi che “è stato uno strumento fondamentale per imporre una visione relazionale della disabilità, ma è oggi improprio ad accogliere l'etica della cura, come tema pubblico, politico, collettivo” (Schianchi 2019: 398) – appare necessaria oggi una proficua contaminazione operativa che ingaggi la ricerca e le pratiche stesse e tenga conto dell'articolazione profonda dei livelli biografico, storico, sociale, politico, scientifico in una prassi strutturalmente intesa dentro un sistema relazionale, in costante commistione con la società civile, con il sindacato (come giustamente ricorda Valtellina sottolineano che la “Union” di UPIAS aveva un doppio valore semantico, associazione, ma anche sindacato), dentro e fuori l'accademia.

La sacralità indiscutibile di un testo come Le politiche della sta anche nel suo essere un'opera estroflessa, inscritta in una teoria “marxista” ben definita, ma al contempo non sistematica, ancora in costruzione, o almeno proviamo a immaginarla così. La traduzione italiana, tardiva ma necessaria, ci invita a dialogare con Oliver, ad interrogare la cornice teorica che sostanzia le sue parole, ma ancorandone la lettura alla contemporaneità, complessa e conflittuale articolazione di tempi e spazi opaci.

Bene fanno i figli putativi di Oliver, raccolti dentro la prospettiva dei , prodotto teorico del modello sociale (nella variante italiana: Medeghini e Valtellina 2006; Medeghini, D'Alessio, Marra, Vadalà, Valtellina 2013), a problematizzare il concetto di disabilità, a decostruire la sua “naturalità” a favore dei contesti e delle relazioni, a collocarne, infine, la materialità deficitaria nell'epistemologia medico-individuale. E che oggi si confrontano con diversi “filoni teorici di ricerca in grado di interpretare e, di conseguenza, di proporre prassi all'altezza dell'attuale complessità economica, sociale e culturale, sia in una prospettiva globale sia considerando le singole realtà nazionali. Tale richiesta, presente nella dimensione culturale dei Critical , si orienta verso il recupero di temi fino a ora ritenuti secondari dai DS (l'importanza del corpo, il rapporto corpo-deficit, il peso della cultura e del discorso nella produzione della disabilità, la condivisione di condizioni oppressive per disabilità, etnia e genere, il ruolo del deficit nell'esperienza delle persone con disabilità, la problematizzazione dell'identità disabile, il tema della cronicità) per l'importanza avuta dal modello sociale fondato sulla centralità della struttura economico-sociale come unico fattore causale della disabilità” (Medeghini 2015).

Sono esempi di estroflessione del testo di Oliver le traiettorie attuali dei disability studies individuate: la disabilità come forma di discriminazione e categorizzazione; la costruzione sociale e culturale della disabilità; l'esperire e il vivere la condizione di disabilità; il tema poltico del corpo; la prospettiva di una vita indipendente; il continuum fra disabilità e non disabilità che può coinvolgere tutte le persone; il tema dell'intersezionalità come sovrapposizione di disabilità e altre forme di oppressione.

Oggi come ieri, la pratica teorica auspicata è opportuno che tragga linfa conoscitiva da un'osservazione minuta dei microcontesti che tenga conto della materialità delle idee e della simbolicità delle forze materiali, in una tensione “umana, politica ed etnografica” (Pizza 2003) così come emerge dal pensiero e dalla corporeità imprigionata di Gramsci: “Leggo molto, libri e riviste; molto, relativamente alla vita intellettuale che si può condurre in una reclusione. Ma ho perduto molto del gusto della lettura. I libri e le riviste danno solo idee generali, abbozzi di correnti generali della vita del mondo (più o meno ben riusciti), ma non possono dare l'impressione immediata, diretta, viva, della vita di Piero, di Paolo, di Giovanni, di singole persone reali, senza capire i quali non si può neanche capire ciò che è universalizzato e generalizzato” (I quaderni del carcere). La dialettica egemonica si inscrive, nel pensiero gramsciano, nella “tensione drammatica e riflessiva alla comprensione degli aspetti soggettivi e delle forme di incorporazione (embodiment) della dialettica sociale nella quale egli è coinvolto intimamente attraverso la lotta politica” (Pizza 2003). Un'attenzione appunto «molecolare» alle microfisiche minime, intime, dei processi sociali e delle sue contraddizioni, nella costruzione delle soggettività e dell'agentività individuale e collettiva, all'interno della quale rileggere e agire istanze emancipative dentro una progettualità condivisa e transdisciplinare. La citazione in esergo con cui Valtellina ci introduce al testo di Oliver sembra dirci proprio questo: “Il corpo (come la persona e il self) è una relazione interna e pertanto aperta e porosa al mondo […] il corpo non è monadico, e nemmeno fluttua liberamente in qualche etere culturale, discorsi e rappresentazioni, per quanto queste possano essere importanti per la materializzazione del corpo. Lo studio del corpo deve fondarsi sulla comprensione delle relazioni spazio-temporali reali tra pratiche materiali, rappresentazioni, immaginari, istituzioni, relazioni sociali e le strutture prevalenti del potere politico-economico” (Harvey 1996).

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Collaboratrice Istituzione “Gian Franco Minguzzi”