Pubblichiamo un commento di all'articolo apparso lo scorso 30 novembre su questo blog e contenente le Linee Guida sulla degli psicofarmaci, a firma di . Le considerazioni che seguono propongono alcune questioni su cui sarebbe importante tener vivo il dibattito pubblico.

Il recente documento sulle linee guida per la di psicofarmaci è il frutto di un percorso che dal 2020 vede confrontarsi in Italia persone di varia estrazione esperienziale e professionale che vivono a contatto con i servizi di salute mentale. L'istituto Internazionale per la Dismissione dei Farmaci Psichiatrici è una rete di ricerca indipendente che riunisce professionist*, utent*, familiar* nella produzione di saperi evidence based che facilitino la dismissione o la riduzione sicura dell'assunzione di psicofarmaci, promuovendo l'introduzione di questi saperi nelle linee guida delle organizzazioni sanitarie sulla base di un approccio alla cura orientato ai umani e al principio della libertà di scelta. Sulla scorta di una base valoriale rivolta alla giustizia sociale, all'antirazzismo, all'uguaglianza di genere e al supporto dei civili per le persone LGBTQIA+, la rete IIPDW promuove una revisione pratica e teorica delle forme di cura in salute mentale che, limitando il peso relativo della prescrizione psicofarmacologica e delle epistemologie ad essa connesse, apra lo sguardo clinico e sanitario ai fondamentali aspetti relazionali e sociali del malessere e della sua cura, anche con l'obiettivo di restituire il giusto protagonismo alle soggettività delle persone che si curano presso i servizi psichiatrici, all* loro caregivers e alle loro reti informali.

Il documento presentato in questo blog frutto dell'ultima revisione delle linee guida dell' (International Institute for Psychiatric Drug Withdrawal) e redatto da a nome della rete italiana, prende in considerazione nell'ambito delle premesse generali una serie di temi cari al movimento della deistituzionalizzazione. In primo luogo, la base di valori forniti dalla Carta Costituzionale: l'articolo 32 della Costituzione, garantendo il diritto alla salute e anteponendo alla cura il principio della libertà di scelta aveva, nelle intenzioni dell Redattor* della Carta, il fine di evitare che l'universalizzazione del diritto alla salute finisse per legittimare quelle pratiche di utilizzo governamentale della medicina che i totalitarismi avevano mostrato essere drammaticamente possibili[1]. L'altro importante richiamo è all'indicazione di Basaglia rispetto alla centralità de* malat* piuttosto che della malattia. La soggettività, nella sua libera espressione e nelle sue potenzialità di pieno sviluppo, resta il più sicuro faro della prassi in salute mentale, da tenere sempre a mente pur nell'evoluzione delle forme organizzate di presa in carico.

La lettura di questo documento, che speriamo circoli il più possibile tra utent*, operator* e familiar*, solleva una serie di domande e di questioni che dovrebbero secondo noi tornare al centro del dibattito pubblico e che riportiamo brevemente:

1) è possibile attuare il tipo di cura e il tipo di servizio auspicato da Basaglia e dal movimento che egli sintetizza nella coscienza collettiva se resta immutata la concettualizzazione della malattia mentale? Se le premesse epistemologiche, le teorie scientifiche, la stessa identità dei corpi professionali non si modificano, come può attuarsi una vera prassi di salute pubblica capace di porre come oggetto il malessere esistenziale e relazionale senza ricondurlo entro confini desoggettivanti, razzisti e patriarcali? Nel documento si legge: “le teorie biologiche alimentano e si fondano sul principio di incomprensibilità delle esperienze di sofferenza mentale”. Quali nuove prassi, organizzazioni e teorie dobbiamo costruire per aggirare questa retroazione sistemica tra il pregiudizio, la prassi e la scienza?

2) se rifiutiamo il profondo pregiudizio sulla incomprensibilità delle esperienze di sofferenza esistenziale e relazionale “anche per le forme di disagio lievi”, come dice il documento, dovremmo immaginare forme di intervento e presa in carico da parte dei servizi che si pongano come preventive. Con “preventive” non indichiamo solo la capacità di diagnosi precoce o l'azione per limitare gli effetti invalidanti della malattia (che sarebbero forme “secondarie” e “terziarie” di prevenzione), ma la possibilità di intervenire nei contesti in cui il disagio non è stato ancora diagnosticato, cioè individualizzato e fossilizzato su un singolo componente dei sistemi relazionali, in cui i determinanti sociali, politici e relazionali sono ancora inestricabilmente legati all'impredicabilità delle esperienze soggettive e possono emergere solo attraverso forme di intervento comunitario che prendano ad oggetto lo spazio pubblico nel suo complesso. Questa forma di “vera prevenzione”[2] non è evidentemente compatibile con un servizio sanitario in cui una prestazione si può erogare (e quindi pagare) solo per un “utente” che sia “preso in carico” e che quindi abbia già una diagnosi individuale ben formulata. Come intendiamo farci carico di questa contraddizione?

3) La letteratura scientifica disponibile mostra l'importanza dei percorsi di autocoscienza nell'accompagnamento dei percorsi di . Dovremmo chiederci quanto è possibile lavorare in questo senso in un orizzonte culturale in cui sussiste la distinzione normativa tra “drugs” legali e “drugs” illegali. Un cambiamento culturale e legale complessivo nei rapporti con le sostanze psicotrope (e che in generale modificano certe strutture e funzionalità corporee, come le terapie ormonali) consentirebbe di apprezzare in forme più precise la poliedricità di aspetti sociali, sanitari, esistenziali che intervengono nel rapporto tra soggettività umane e sostanze. Senza inoltrarci nei complessi discorsi teorici che servirebbero ad argomentare compiutamente questa posizione, citiamo solo due fatti emblematici. Le carceri italiane (dove quest'anno si registra il record assoluto di suicidi) sono piene di utilizzatori di sostanze – soggettività portatrici di un problema sanitario, secondo la legge Italiana, che oggi viene trattato principalmente come problema di ordine pubblico e giustizia penale. D'altra parte salutiamo con favore la nascita negli ultimi mesi della Rete ItanPud (Network italiano delle persone che usano droghe), che segnala finalmente la nascita di forme di autorappresentanza in questo campo, in conformità con ciò che avviene già da anni a livello europeo. La maggiore coscienza, la valorizzazione dei saperi di chi usa sostanze, il cambiamento culturale (e di politiche pubbliche) nell'approccio a chi modifica i propri stati di coscienza costituiscono un'unica battaglia culturale di cui dovremmo tenere insieme i corni.

4) il documento che qui presentiamo fa leva sui dimostrati effetti indesiderati dell'assunzione prolungata di psicofarmaci, il cui peso nell'esperienza soggettiva di chi li assume supera di gran lunga i benefici dichiarati dalle case farmaceutiche e dalla maggioranza dei prescrittori. Come ha dichiarato anche il prof. Angelo Barbato dell'Istituto Mario Negri al X congresso di Medicina Democratica, è necessario sottrarre la ricerca scientifica al profitto e ricreare uno spazio pubblico in cui possano essere consapevolmente discusse le elaborazioni della ricerca stessa. La recente pandemia e la drammatica polarizzazione sociale sui vaccini hanno mostrato come, in assenza di una produzione e una ricerca farmacologica rivolta al bene pubblico (e non al privatismo dei brevetti) vengano a cadere anche affidabilità e accountability delle scelte politiche che si appoggiano sui “pareri esperti”, con gravi conseguenze sulla tenuta sociale democratica.

5) nel documento vengono citati anche i costi sociali, ampiamente sottovalutati, del ricorso indiscriminato agli psicofarmaci. Dobbiamo guardare questo fenomeno in modo complesso: anche tenendo conto della variabilità e della frammentarietà dei soggetti prescrittori (ed erogatori: basta spendere soldi su internet per ordinare sostanze che in Italia sarebbero disponibili solo dietro prescrizione del medico di base o dello psichiatra del SSN), ci appare che l'incontro tra soggetti e sostanze è un campo poliedrico fatto di bisogni, aspirazioni, desideri. Il bisogno di salute si mescola con l'ingiunzione alla performance produttivistica – indipendentemente dal fatto che questa riguardi il lavoro o il tempo libero – il desiderio di benessere si complica con richieste di riconoscimento sempre nuove e mutevoli, la ricerca di relazioni significative si confonde con i significati simbolici delle sostanze. È necessario un dibattito culturale molto ampio per affrontare questa complessità antropologica, psicologica e sociale. Una prima indicazione che questo documento fornisce è quella di fidarsi delle esperienze e dei saperi di chi vive queste “tecnologie del sé” (si veda l'ultimo ciclo di opere di per familiarizzare con questo concetto) in prima persona. Nella misura in cui riescono a sfuggire dal ricatto assistenziale/penale dei servizi, moltissime persone esercitano già consolidate pratiche di autogestione, dismissione e autocontrollo nel rapporto con le sostanze, in solitudine o ricorrendo a forme mutualistiche, con esiti positivi o andando incontro a drammatici fallimenti, scoprendo nuove strade o ricadendo nella coazione a collocarsi nel ruolo sociale del “dipendente” formulato e corroborato dai pregiudizi sociali[3].

Manca uno spazio pubblico in cui di queste esperienze possano parlare l* dirett* protagonist* e questo documento vuole essere un passo nella direzione della sua creazione.

 


sociologo, collaboratore Istituzione G. F. Minguzzi

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Note:

  1. Si veda a proposito “Il pensiero lungo”, di Daniele Piccione; 2013, Alphabeta Verlag
  2. Sulla distinzione tra “Vera e falsa prevenzione” si veda G. A. Maccacaro nell'articolo che porta questo titolo: “Vera e falsa prevenzione”, in Sapere, Dedalo, Bari, 1976, 794, pp. 2-5
  3. Su questo si veda lo scritto sull'alcoolismo in G. Bateson, “Verso un'ecologia della mente”, Adelphi, 1977; “La cibernetica dell'”io”: una teoria dell'alcoolismo”