Riceviamo e pubblichiamo il commento di all'articolo di , pubblicato la scorsa settimana sul nostro blog. Saraceno ci invita a riflettere sul termine e sull'ambiguità della sua interpretazione, focalizzando il senso reale della parola e le importanti implicazioni ad essa connesse.

Bene fa ad aprire un approfondito dibattito a proposito del ruolo e del sapere degli utenti della , un dibattito anche su questioni epistemologiche. È infatti salutare una riflessione su concetti (spesso semplicemente “parole” usate con una certa approssimazione concettuale) entrati a far parte del gergo quotidiano della : “sapere esperienziale”, “servizi rivolti alla recovery”, “supporto tra pari”, “sapere della partecipazione”, “”.

Negrogno si interroga e ci interroga svelando le consapevoli o inconsapevoli mistificazioni che possono celarsi dietro nozioni apparentemente “buone”. Chi vorrebbe mai negare agli utenti? Chi non sottoscriverebbe un rispetto e una doverosa attenzione al “sapere” di chi sperimenta la sofferenza dovuta a un disturbo/disabilità mentale?

Certamente, in una nuova retorica rischiosa si incrociano operatori con buone intenzioni, ma spesso ingenue, operatori con forte e autentica carica innovativa e operatori che hanno semplicemente fatte proprie le nuove parole del linguaggio del politically correct psichiatrico. E non sappiamo con precisione e chiarezza come gli stessi utenti definiscano il proprio sapere esperienziale né sia ben chiaro di quali “esperienze” si tratti (quella della psicosi? della depressione? della nevrosi? del social suffering di cui parla l'antropologo americano Arthur Kleinman? O, magari si tratta della esperienza di utente che attraversa i servizi e da essi viene trattato?). E neppure è chiaro quale sia il riconoscimento che a tale sapere venga attribuito dalla : riconoscimento pieno, rispettosa attenzione o paternalistico ascolto?

Certamente c'è molta confusione e un bisogno sia di riflessione teorica, sia di attenta valutazione delle esperienze pratiche sia, infine di ricerca (come molto bene raccomanda lo stesso Negrogno alla fine del suo bel saggio).

Questo dibattito sulle “parole” non è affatto astratto e accademico perché ha ricadute importanti sulla pratica dei servizi e sul potere reale degli utenti.

Ritengo che a monte di tutta questa discussione ci sia ancora una certa vaghezza rispetto alla nozione di .

Come il termine venga tradotto in diverse lingue non è infatti una questione di interesse accademico-linguistico ma implica una scelta non neutra del traduttore. Partire dalla questione della traduzione del termine ci aiuta a riflettere sul senso reale della parola e sulle importanti implicazioni ad essa connesse.

In francese il termine più diffuso utilizzato per tradurre empowerment è responsabilisation mentre in spagnolo è apoderamiento. Risulta evidente che il termine francese pone l'accento sulla assunzione della responsabilità ossia sull'aumento dei doveri del soggetto empowered mentre il termine spagnolo pone piuttosto l'accento sulla pura assunzione di potere. In tedesco si trovano frequentemente due termini: Mitwirkungsmöglichkeit e Befähigung, che entrambi pongono l'accento sulle opportunità offerte a un soggetto ossia sulla sua “abilitazione a”.

E in italiano? Le due traduzioni più diffuse sono: “conferimento di potere” e “attribuzione di responsabilità”. La prima (simile alla traduzione in spagnolo) pone in primo piano l'attribuzione di potere mentre la seconda (più vicina alla traduzione francese) sottolinea l'aumento di doveri connessi alla assunzione di responsabilità.

Non è difficile capire come la scelta di uno o l'altro termine (potere oppure responsabilità) non sia scelta neutra e irrilevante.

Si potrebbe dire che intendere l'empowerment come responsabilizzazione sembra riflettere il tentativo di mantenere un filo paternalistico fra chi dà e chi riceve, dunque si sottolinea che, anche se si tratta pur sempre di un processo ove il recipiente riceve qualcosa (come fu il caso delle prime timide costituzioni “octroyées” ossia “concesse” ai popoli europei dai loro regnanti) tale conferimento è in sostanza una concessione, un “dono”.

Tale “dono concesso” implica soprattutto nuovi doveri, nuove responsabilità e, curiosamente, l'enfasi sui doveri pone in ombra la idea di una assunzione di potere, contrariamente a come si possa invece intendere l'empowerment giuridico e politico come “conferimento del potere” a un soggetto che tale potere non ha.

Non ho l'impressione che tali distinzioni che, come ho già detto, non sono sottigliezze semantiche ma scelte con implicazioni rilevanti, siano tenute in gran conto dall'uso diffuso, inflazionato e spesso acritico del termine empowerment nel linguaggio comune, giornalistico, politico e sociologico. Empowerment allude, anche se un po' acriticamente, a una nozione positiva ossia è divenuto un termine politically correct e dunque abusato e assunto con una connotazione tanto positiva quanto vaga e sostanzialmente deprivata di senso forte e dunque priva di conseguenze reali [1]

Dunque, non solo mi associo al richiamo di Negrogno a una approfondita ricerca epistemologica sul ruolo e sul sapere degli utenti ma, anzi, la estendo anche alla nozione di empowerment.

È necessario definire con più precisione cosa si intenda per empowerment

È necessario dichiarare quali sono i soggetti che dovrebbero essere recipienti di empowerment (e quali quelli che non dovrebbero esserlo!)

Potremmo dire in prima approssimazione che l'empowerment è un processo che conferisce maggiore:

  • capacity to aspire”, secondo la nozione concettualizzata da Arjun Appadurai [2].
  • capacity to functioning”, secondo la nozione concettualizzata da Amartya Sen [3].

Dunque, l'empowerment non è tanto un conferimento astratto e decontestualizzato di potere ma piuttosto la messa in opera di processi che promuovono diverse capacità contestualmente alla acquisizione di beni e risorse:

  • capacità ad aspirare a… (maggiore benessere, maggiore libertà e maggiore potere)
  • capacità ad acquisire strumenti per aumentare il benessere, libertà e potere

e, infine

  • acquisizione di beni e risorse che aumentano benessere e libertà.

Tale definizione più articolata di empowerment se presa sul serio ha (avrebbe) conseguenze pratiche importanti.

Un paradigma che illustra bene l'ambiguità dell'empowerment che di fatto viene sostituito da una concessione paternalistica è quello della riabilitazione dei malati psichiatrici: troppo spesso i processi riabilitativi consistono in concessioni graduali, controllate e fondamentalmente autoritarie di risorse e capacità. La miseria della assistenza psichiatrica riproduce cronicità, dipendenza, barriere, esclusioni, invalidazioni, ossia produce quella infantilizzazione di chi è considerato e trattato unicamente come destinatario passivo di interventi e supporti, ossia è trattato come ‘costo' e non come una risorsa. Nel contesto invalidante e infantilizzante della i tentativi di produrre riabilitazione ed empowerment non possono che essere votati allo scacco in quanto portano le stimmate dell'intrinseco carattere invalidante della istituzione stessa.

Riflettere sull'empowerment significa anche ripensare in modo “critico” processi di “liberazione” promossi talvolta in forme inconsapevolmente coloniali o comunque autoritarie anche nel quadro di iniziative innovatrici e progressiste (“noi sappiamo di cosa hai bisogno”). Spesso l'empowerment si limita ad un processo di trasferimento di risorse o di che tuttavia da un lato non si interroga sulla “capacity to aspire” e dall'altro mantiene una forte asimmetria di saperi e poteri in ordine al “cosa” e al “quanto” viene trasferito in termini di e di risorse.

 


Secretary General
Lisbon Institute of Global Mental Health

 

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[1] Saraceno Benedetto, Tempi di assedio ed empowerment. In: Psicopolitica. Derive e Approdi, Roma 2019 p.90

[2] Arjun Appadurai, 2002. Deep Democracy: Urban Governmentality and the Horizon of Politics. Public Culture, 14 (1):21-47

[3] Amartya K. Sen, La diseguaglianza. Il Mulino, Bologna 1994