In occasione della presentazione del Mental health report dell' a Roma il 13 e 14 ottobre, pubblichiamo una riflessione critica che, a partire dai limiti del documento, propone una serie di approfondimenti politici sulla cura, la psichiatria e le relazioni sociali.

L'abolizione dei manicomi, e il reinserimento dei ricoverati nella società, sono fuori discussione, così come la necessità di medicare le ferite inferte dal potere. Invece, non è ovvio puntualizzare i sensi e le premesse del reinserimento. Farlo significa tout court aprire senza esitazione il discorso non solo e non tanto sullo Stato come estrema istituzione ma anche su tutte le altre “istituzioni negative” e, ancora più in là, sulla intera istanza sociale.

Aldo Braibanti, “Impresa dei prolegomeni acratici”, 1989

 

Il 13 e 14 ottobre 2022 si terrà a Roma l'incontro internazionale promosso dal in cui verrà presentato il World Mental Health Report[1] dell' (Organizzazione Mondiale della Saanità). Il documento, con un linguaggio e un approccio orientato ai umani, propone di superare le istituzioni totali, localizzare le politiche di assistenza a livello di , promuovere sensibilizzazione e prevenzione per abbattere lo stigma intorno ai disturbi mentali. Alla scrittura hanno partecipato le professionali più progressiste (tra cui rappresentanti dell'esperienza dei servizi di di Trieste) e un significativo gruppo di users e survivors: il punto del superamento degli ospedali psichiatrici e la presenza di molte storie di vita e di recovery sono i segni più evidenti di queste presenze.

A seguito della pubblicazione del report si è sviluppato un notevole dibattito nel mondo scientifico: e José Miguel Caldas de Almeida hanno notato che, nonostante le intenzioni progressiste dell', c'è da segnalare un “paradossale divorzio tra l'abbondanza delle dichiarazioni e la povertà dei risultati. Prima di tutto potremmo dire che oggi menzionare i umani delle persone che usano i servizi di è diventato più un obbligo dettato dalla correttezza politica del linguaggio che da veri progetti per difendere questi [2]. Lo stesso WHO Atlas del 2021 riporta un arretramento in Europa delle politiche di rispetto ai umani, l'allocazione di risorse pubbliche per la a vantaggio delle Cure Primarie resta molto ridotta rispetto a alla spesa ospedaliera[3] e la maggior parte delle politiche di , piuttosto che promuovere e rinforzare , ne provocano la violazione. Saraceno e Caldas de Almeida puntano inoltre il dito sulla eccessiva genericità che l' ha mantenuto rispetto al dibattito che in questi anni attraversa la scientifica sulle questioni definitorie relative ai disturbi, le malattie e le mentali. Su questo punto il report sembra aver mantenuto una ritrosia che risulta anche più arretrata rispetto ad altri documenti dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, che si sono espressi in modo ben più deciso sulla necessità del superamento del modello medico, e della stessa Lancet Commission on Mental Health, che sta ospitando un dibattito interno sulla necessità del superamento dell'approccio definitorio categoriale delle condizioni problematiche di salute mentale[4]. Su Lancet, l'editoriale di Richard Horton,[5] pur notando l'importanza del report per il rilievo che dà ad alcune notevoli innovazioni nelle politiche pubbliche per la salute mentale (la copertura sanitaria pubblica per interventi in salute mentale istituita in Cile nel 2005, l'atto per il controllo della diffusione di pesticidi in SRI Lanka, che ha abbattuto il tasso annuale di suicidi, ecc[6]) ha messo in rilievo il problema di affidabilità dell'. Secondo Horton, “non c'è nulla nel report sullo sviluppo di mezzi per aumentare la responsabilità e l'indipendenza dei governi degli stati membri”. In secondo luogo, c'è una carenza di credibilità sui determinanti strutturali di salute mentale: “l'OMS fornisce un'accurata descrizione a proposito dell'importanza della povertà, dell'insicurezza finanziaria, delle disuguaglianze di reddito e dell'esclusione sociale nel costruire la salute mentale. Il valore dell'educazione, di un'abitazione sicura, delle politiche per proteggere contro la discriminazione, dell'uguaglianza di genere e della cura della salute mentale in carcere sono opportunamente sottolineate. Gli effetti della crisi economica, delle emergenze umanitarie e di salute pubblica (tra cui il Covid-19), della migrazione e dell'espulsione forzata delle dai territori, la crisi climatica, sono riconosciute. Ma da nessuna parte l'OMS richiama i singoli paesi alle lore specifiche responsabilità per salvaguardare la salute mentale incidendo su questi determinanti strutturali”. Secondo Horton, l'assenza di specifiche condanne da parte dell'OMS sulle politiche discriminatorie, oppressive, corrotte o orientate ad approfondire le diseguaglianze strutturali mettono la posizione dell'Oms in un accountability gap; se l'agenzia non lo riduce, mostrando indipendenza e affidabilità e indicando chiaramente cosa dovrebbero fare coloro che hanno il potere per influenzare seriamente la salute mentale, “la trasformazione promessa morirà su un altare di vuota eloquenza”.

Le insufficienze e le reticenze messe in luce dai commenti che abbiamo citato costituiscono un buon punto di partenza per approfondire la critica su alcuni nodi strutturali del discorso della salute mentale: in primo luogo l'assenza di una discussione sulle problematiche epistemologiche che riguardano la nozione di salute mentale, la cui indeterminatezza gioca più a vantaggio della autodifesa di gruppi tecnico professionali che non come possibile strumento di lettura delle contraddizioni esistenziali e sociali da parte delle popolazioni. In secondo luogo la persistenza come ambito separato e tecnicamente specialistico di questa salute mentale così intesa, vale a dire subordinata ad una epistemologia medica dal punto di vista del potere professionale e nella pratica sovradeterminata dagli interessi dell'apparato farmacologico-industriale, incapace di dialogare praticamente con le questioni politiche, sociali e relazionali che ne definiscono la realtà. In terzo luogo l'assenza di riflessione sulle contraddizioni della pratica, che è impossibile considerare senza lo sviluppo di scientifiche allargate, in cui possano trovare occasione di scambio e costruzione comune diverse esperienze, figure professionali, gruppi sociali, soggettività escluse e marginalizzate dalla produzione mainstream di discorsi e di policies.

Sul piano epistemologico l'arretratezza del report sta nel non mettere in questione il semplicistico assunto medico che ipostatizza l'ambito del “mentale” e che impedisce di guardare alla complessità dei temi elusi da un concetto di “salute” eccessivamente piatto e meccanicistico. Il mentale come ambito separato continua a costituirsi così come campo privilegiato delle discipline psy, riproduce la separatezza dell'individuo isolato, impedisce di guardare alla complessità delle relazioni in cui l'esperienza esistenziale è immersa. La salute intesa come fatto meramente medico-sanitario si risolve nell'adeguatezza al paradigma produttivistico, ricacciando nell'oscurità il complesso di possibili rapporti di dominio, reciprocità, cooperazione e competizione che strutturano l'esperienza collettiva. Al fondo di questa limitatezza c'è l'incapacità da parte dell'Oms di formulare una critica all'organizzazione dominante dei gruppi professionali che detengono il potere sulle definizioni di “salute” e di “mentale”. La psichiatria continua quindi a definire la salute mentale e il connubio di posizioni tecnico-farmacologico-industriali che in ultima istanza dominano i sistemi sanitari impedisce di denunciarne apertamente le contraddizioni. L'impostazione principalmente medica dei temi relativi alla salute mentale continua quindi indisturbata a costituire una grave minaccia per i diritti sociali e civili delle popolazioni marginali. Per restare alle dichiarazioni degli organismi sovranazionali, la questione è ben stata messa in luce due anni fa dal Rapporteur sui diritti umani delle Nazioni Unite Dainius Pūras, secondo cui bisogna prendere sul serio la relazione tra «potere medico e controllo sociale»[7].

La stretta connessione tra le pratiche dei servizi di salute mentale e il rischio di limitazione dei diritti umani è nota alla letteratura scientifica; comune è la maggiore incidenza delle prassi coercitive e delle etichette diagnostiche maggiormente invalidanti su gruppi di individui già vulnerabili, nell'intersezione di caratteristiche di razza, classe e genere. Spesso per persone nerƏ, LGBT e poverƏ, nei paesi del nord e del sud del mondo, l'intervento medico si traduce in prassi coercitive e paternalistiche[8]. Dainius Pūras ha dichiarato: «la combinazione di un modello biomedico dominante, le asimmetrie di potere e il largo uso delle pratiche coercitive tengono non solo le persone con problemi di salute mentale ma tutto il sistema dei servizi di salute mentale in ostaggio di un modello antiquato e inefficace (…) le dinamiche di potere della professione psichiatrica hanno tradizionalmente rinforzato lo status quo dominato dal paradigma biomedico». Il documento dell'Oms, non proponendo di fatto un preciso superamento del modello biomedico, resta ambiguo in tutti i contenuti conseguenti. Anche l'indicazione sull'importanza della ricerca resta una vuota dichiarazione di principio, se non si chiarisce che essa deve andare oltre il modello esistente di lettura della sofferenza mentale e affrontare una buona volta il non-detto dei conflitti di interesse che la attraversano.

A partire da questa irrisolta contraddizione vediamo come una salute mentale intesa come ambito specialistico e separato sia incapace di suscitare le necessarie riflessioni sul tema più generale della riproduzione sociale, vale a dire sulle dimensioni di oppressione, disuguaglianza e ingiustizia sistemica che caratterizzano la totalità degli ambiti di cura del vivente. Tali forme di oppressione sono ulteriormente invisibilizzate e naturalizzate dal momento in cui l'astratta separatezza medica e psy crea suoi oggetti funzionali espropriando le comunità della possibilità di tematizzare politicamente il problema della cura e le dimensioni etiche conseguenti. Infatti, i contenuti del report si inabissano in una dimensione di oscura vaghezza proprio negli ambiti che maggiormente sarebbero da indicare come determinanti strutturali di salute. Oltre a restare neutrale sulle questioni politiche più rilevanti (cioè sui modelli di welfare, su come intervenire sulle diseguaglianze sociali, su come mettere in discussione gli squilibri di potere che restano al cuore della prassi psichiatrica) il documento non dice nulla di concreto su come arginare la destrutturazione liberale dei servizi sanitari e di protezione sociale pubblici, non condanna la trasformazione dei sistemi di welfare in modelli oppressivi-workfaristici, non tematizza la dimensione delle politiche pubbliche nell'ambito del reddito, del lavoro, dell'urbanistica, del diritto alla casa, dell'istruzione, che esercitano concretamente la riduzione costante di potere e l'aumento del ricatto sociale ed economico a cui sono sottoposte le comunità marginalizzate e impoverite. Non emerge abbastanza la critica ad un processo in cui, pur moltiplicandosi i “gradini” attraverso cui accedere a forme sempre più personalizzate di inclusione, si prospetta per sempre più persone lo spettro dell'inaccessibilità alle prospettive “capacitanti” e la permanenza in condizioni di abbandono (pensiamo alle persone disabili e alle loro famiglie) o carcerizzazione (pensiamo alla popolazione che utilizza sostanza illegali).

È evidente il legame tra un approccio concettuale meccanicistico e la divaricazione continua tra dichiarazioni ottimistiche e pratica: chi vive la destituzione di senso del servizio pubblico, chi subisce le asimmetrie di potere e la riduzione di spazi relazionali ed esistenziali, chi negli ultimi 40 anni ha operato negli interstizi delle istituzioni per promuovere pratiche sociali innovative (le quali si sono spesso cronicizzate esse stesse come isole di “buone pratiche” utili a rivestire di un'immagine vagamente progressista un sistema che andava nel suo complesso destrutturandosi) non ha voce nell'attuale costruzione “alta” delle politiche e dei discorsi. La dissonanza tra dichiarazioni e pratiche sembra trovare il suo naturale palcoscenico nella scelta di tenere un forum mondiale proprio in Italia: mentre si riconosce il valore storico della italiana, la sanità privata lombarda (che ormai sovra-determina il modello di sanità nazionale e detta la linea e l'epistemologia ai governi) costruisce – con l'autorizzazione del Ministero – un manicomio da 600 posti in Kenya, esportando nel mondo il modello della privatizzazione del sistema sanitario e i residui delle istituzioni totali che speravamo di aver superato[9]. Il rischio che il rapporto tra OMS e Ministero Italiano della salute si riduca ad una rituale passerella senza toccare le discussioni sulle criticità esistenti, come ha mostrato la vicenda del report sulla mala gestione della pandemia (velocemente ritirato)[10], va approfondito perché sembra che in Italia siano sempre disponibili forze “progressiste” pronte ad evitare o attutire i possibili conflitti generativi di cambiamento. Le soggettività che quotidianamente vivono il disagio, la cura, il tentativo di rispondere ad essi attraverso la solidarietà e l'autogestione sanno bene invece che non sono mai valorizzati e adeguatamente finanziati pubblicamente le prassi realmente rivolte alla recovery (intesa secondo i contenuti originari dell'attivismo dei survivors), che nei servizi continua a spadroneggiare la cultura del mero intervento contenitivo, cronicizzate e farmacologico, che la formazione professionale non ha mai superato il modello biomedico (in collusione con le lobby professionali) e che esso viene quotidianamente riconfermato dalla logica minimalistica e di sfruttamento dominante nella strutturazione dei servizi e degli appalti al terzo settore. I processi congiunti di riduzione o mancata sostituzione del personale determinati dal blocco delle assunzioni (che ormai strutturalmente caratterizza i servizi pubblici in conseguenza dei piani di rientro imposti dalle istituzioni transnazionali), il maggiore investimento nella residenzialità “protetta” piuttosto che negli interventi territoriali e comunitari, l'arretratezza sul piano della formazione e delle politiche professionali, sono elementi che concorrono all'aggravarsi di questo quadro.

Cosa si intende nel documento dell'OMS per cura della salute mentale? Per quanto venga predicata l'attenzione ai determinanti sociali, non vengono analizzate le politiche dei vari paesi con i loro limiti specifici. Dando uno sguardo al panorama italiano, emergono per esempio alcuni segnali di grosso allarme. Stando a quanto dichiarato dal rapporto del Sistema Informativo Salute Mentale del , infatti, nel biennio 2020-2021 sono calati del 50% gli interventi psicosociali e riabilitativi[11]. Con quale coraggio si elogia il modello italiano se esso è sempre più limitato a prestazioni farmacologiche, contenzione, ricovero in strutture residenziali e, in ultima analisi, prassi che favoriscono l'assistenzialismo e la cronicità?

Inizia a definirsi la questione che dovremmo rimettere al centro: a quale concetto di comunità si fa riferimento quando si parla di salute mentale di comunità? Stiamo parlando della possibilità di prendere voce e potere da parte di popolazioni povere e oppresse, sempre più soggette a ricatto e malessere, per ricostruire possibilità di conflitto sociale con chiari esiti redistributivi? Stiamo parlando della possibilità di superare la logica che lega il valore degli individui alla loro produttività economica e contrastare realmente l'esclusione sociale? Purtroppo no: nel report sembra farsi riferimento a una comunità di consumatori, orientata solo al valore economico. Continua per esempio ad essere utilizzata la retorica sui “costi economici della malattia mentale in termini di PIL e produttività” la quale, come ha sottolineato Pūras, ha la conseguenza di oscurare il tema dei diritti sociali e concorre alla psicologizzazione della povertà.

Basta guardare alle produzioni scientifiche del Network dei Mad Studies per trovare i segni di una possibile riformulazione di questi temi e un'analisi critica di come siano declinati nella pratica i discorsi progressisti che attualmente orientano le politiche di salute mentale. Ancora poco tradotti e diffusi in Italia, i Mad Studies “possono essere definiti in termini generali come un progetto di inchiesta, produzione di conoscenza e azione politica rivolta alla critica e al superamento dei modi di pensiero, delle prassi e delle relazioni centrati sul paradigma psy. Per questo i Mad Studies sono fermamente schierati contro la psichiatria biomedica e, nello stesso tempo, ritengono valide e supportano le narrative e le culture dei survivors. I Mad Studies intendono affrontare e e trasformare i sistemi, le leggi, le idee, le pratiche e i linguaggi oppressivi, anche collaborando con i profesisonisti, nei campi della “salute mentale” e delle scienze psy e anche nella cultura più vasta”[12]. In “Recovery-as-policy as a form di neoliberal state making” Brigit McWade[13] ha mostrato che

“coloro con accesso al potere materiale e istituzionale sono stati capaci di usare l'ambiguità concettuale della recovery per riallinearne la pratica con i modelli biomedici dominati di salute e malattia mentale. Le pratiche di giustizia sociale legate alla recovery, che promuovono approcci collettivistici e demedicalizzati sulla follia e il disagio, sono stati variamente marginalizzati, cooptati e sovradeterminati lungo vari conflitti a proposito della definizione dei termini. In luogo dell'attivismo per la recovery basato sui diritti e la trasformazione della società che [l'attivismo] ha cercato di affermare, le pratiche esistenti sono meramente ottimizzate e rivendute come recovery oriented. (…) Usando la metafora della recovery i produttori di politiche pubbliche hanno dichiarato di ascoltare la voce dei pazienti. (…) La centralità assunta dalle politiche per la recovery può essere vista come una risposta diretta alle sfide poste dall'attivismo dei survivors, in cui sono state ristrutturate le relazioni di potere”. I servizi strutturati secondo le politiche orientate alla recovery hanno riprodotto alcuni schemi classici dei modelli di politiche pubbliche neoliberali: “la mercatizzazione dell'assistenza sanitaria ha promosso l'ideale dell'autonomia individuale in modo da contrastare i principi collettivistici e di giustizia sociale, promuovendo l'idea di “malattia mentale” come problema personale più che sociale”.

Dentro il paradigma delle politiche per la recovery si sono affermati vettori di sempre maggiore “responsabilizzazione repressiva”, vale a dire che “l'agenda neoliberale prevalente concettualizza la follia e il disagio come una conseguenza di comportamenti e scelte irresponsabili che necessitano di essere controllate e contenute”; di conseguenza “l'ideale della libera scelta oscura l'incremento di dispositivi legislativi repressivi che estendono il potere di condizionare e limitare le persone contro la loro volontà”. In questo orientamento alla recovery si realizza una forma di ristrutturazione dei diritti di cittadinanza, rispetto a cui si dichiara l'importanza per le persone trattate dai servizi: “i pazienti devono diventare cittadini conformandosi a un'idea precostituita di cittadinanza, non espandendo l'ampiezza di ciò che conta nella cittadinanza stessa o di cosa potrebbe contare, secondo una negoziazione collettiva quotidiana. (…) La libera scelta è una contingenza della conformità”. Come ha osservato Diana Rose: “per quanto gli obiettivi della recovery siano intesi come “personali”, certi obiettivi non sono permessi. Tu non puoi decidere di stare a letto per un mese”[14].

In definitiva, l'organizzazione delle politiche attorno ad una idea regolativa di individuo razionale, autonomo, indipendente (che si traduce nell'interpretazione del paziente come consumatore, dimensione a cui si accompagna la retorica della libertà di scelta) produce pratiche e servizi che naturalizzano l'applicazione di misure più severe e repressive nei confronti dei gruppi sociali che si discostano da questa idea regolativa; il paradigma dell'assunzione di responsabilità che si risolve in una possibilità di conformarsi a ruoli sociali predefiniti d'altra parte riproduce l'idea di irresponsabilità come suo fantasma – sottoponendo costantemente l'obiettivo dell'inclusione sociale alla minaccia del suo rischioso contraltare, nel quale vengono in ultima istanza re-identificati la follia e il disagio. Brigit McWide, analizzando i tassi di “incarcerazione della ” che si sono accompagnati nel Regno Unito con l'affermarsi delle politiche recovery oriented ha parlato di ideali regolativi “designed to fail”, cioè che sono ineluttabilmente costruiti per naturalizzare e deproblematizzare la tendenziale esclusione sociale di persone razializzate, impoverite, sfruttate e discriminate attraverso la loro collocazione sulle faglie del genere, della classe e della neurodivergenza.

È oggi necessario esprimere apertamente il problema politico che sta alla base delle contraddizioni permanenti nell'ambito della salute mentale. Costruire una rete nazionale in cui sia possibile esprimere, raccogliere e condividere contro-narrazioni, riconoscendo la produzione di saperi marginali e locali sulle pratiche dei servizi, è uno dei compiti politici più pressanti: si vedrebbe che quotidianamente nei servizi pubblici territoriali vengono negati diritti, i colloqui sono troppo brevi, ti tengono giusto il tempo per darti la terapia e non c'è la possibilità di essere ascoltati o di esprimere i dubbi e le difficoltà, la parola delle persone etichettate malate di mente non viene presa in considerazione, anzi spesso è considerata mero sintomo della malattia. Operatrici e operatori dei servizi vivono per la maggior parte al di fuori da qualsiasi dimensione di senso, preferiscono spesso cercare altri lavori che lavorare per un servizio pubblico che nei fatti nega gli obiettivi che dichiara di perseguire, d'altra parte i servizi chiudono o riducono gli orari, le equipe e le Unità di Valutazione Multiprofessionale si risolvono in stanche ritualità vuote o al massimo in momenti burocratico-amministrativi, nei segmenti esternalizzati al terzo settore si lavora senza protezione, riconoscimento, confronto. La condizione di ricatto esistenziale a cui sono sottoposte la persone con risorse sociali e culturali prese in carico dai servizi di salute mentale (“se non prendi i farmaci ti tolgo la casa popolare”, “se non vieni alle visite ti faccio un TSO”, “il tirocinio è finito e ora non verrai inserito da nessuna parte, vai a fare volontariato e vivi con 280 euro al mese”, ecc) diventa ancora più ridicola quando si promuovono campagne antistigma basate sul fallace assunto che “assumere psicofarmaci per il resto della vita” sia una condizione paragonabile a quella di una “persona diabetica che prende l'insulina”. Continua ad esserci grande arretratezza culturale sugli psicofarmaci: come ogni sostanza che influisce sulla psiche, sull'equilibrio ormonale, sugli stati d'animo, sulle percezioni e sulle condizioni esistenziali, esse dovrebbero essere sottratte al controllo dell'apparato mafioso-farmacologico-industriale-statale[15] e divenire oggetto di ricerca, distribuzione e produzione condivise da parte di comunità libere, responsabili, informate e competenti. Oggi invece si nasconde dietro l'interesse dichiarato della “cura” un coacervo di interessi e posizioni di potere che producono come effetti più evidenti la progressiva cronicizzazione del malessere, la perdurante sottrazione di voce e di potere ai danni delle persone marginali, la creazione di barriere e sensi di inadeguatezza contro la capacità di prendersi cura collettivamente delle diversità. È anche evidente che invece nelle pratiche sociali, negli interstizi delle città, nelle sperimentazioni dei rapporti, si coltivi un grande sapere sulla cura, sulla sua reciprocità, sul suo potere emancipativo. Sulla base di questo dovremmo ripensare molte questioni del nostro vivere associato.


Istituzione Gian Franco Minguzzi

 


NOTE:

  1. https://www.who.int/teams/mental-health-and-substance-use/world-mental-health-report
  2. Saraceno, B. Caldas de Almeida, JM; “An outstanding message of hope: the WHO World Mental Health Report 2022”, Epidemiology and Psychiatric Sciences, Volume 31, Cambridge University Press, 2022
  3. WHO (2021) Mental Health Atlas 2020. Geneva: WHO, https://scholar.google.com/scholar?q=WHO+(2021)+Mental+Health+Atlas+2020.+Geneva:+WHO.
  4. Patel, V. Saxena, S. Lund, C. Thornicroft, G. Baingana, F. Bolton, P. Chisholm, D. Collins, PY. Cooper, J. Eaton, J. Herrman, H. Herzallah, MM. Huang, Y. Jordans, M. Kleinman, A. Medina Mora, ME. Morgan, E. Niaz, U. Omigbodun, O. Prince, M. Rahman, A. Saraceno, B. Sarkar, BK. De Silva, M. Singh, I. Stein, DJ. Sunkel, C. and Unutzer, J. (2018) The lancet commission on global mental health and sustainable development. Lancet 392, 1553–1598
  5. Horton, R. “WHO's hits and misses for mental health”, Lancet, Volume 399, Issue 10343, P2253, 2022, Elsevier Ltd
  6. “Banning highly hazardous pesticides is a particularly inexpensive and cost–effective intervention. In countries with a high burden of pesticide self-poisonings, bans can lead to an immediate and clear drop in overall suicide rates, without agricultural loss”. Si vedano: Lee, YY. Chisholm, D. Eddleston, M. Gunnell, D. Fleischmann, A. Konradsen, F. et al. “The cost–effectiveness of banning highly hazardous pesticides to prevent suicides due to pesticide self-ingestion across 14 countries: an economic modelling study”, Lancet Glob Health, 2021; 9(3):E291–E300. doi:10.1016/S2214-109X(20)30493-9; Gunnell, D. Knipe, D. Chang, S-S. Pearson, M. Konradsen, F. Lee, WJ. et al. “Prevention of suicide with regulations aimed at restricting access to highly hazardous pesticides: a systematic review of the international evidence”, Lancet Glob Health, 2017; 5(10):e1026–e1037. doi:10.1016/S2214-109X(17)30299-1.
  7. Una sintesi del report di Dainas Puras in italiano è stata svolta dall'Istituzione Gian Franco Minguzzi di Bologna: “Il cambio di paradigma: una salute mentale basata sui diritti”, https://unacertaideadi.altervista.org/2020/10/il-cambio-di-paradigma-una-salute-mentale-basata-sui-diritti/
  8. Fernando, S. “Mental Health, Race and Cuture (III edizione), 2010, London, Palgrave Macmillan; Kalathil, J. “Themes from the literatureon recovery from mental distress: a short summary”, 2007, London, Survivor resarch; Mama, A. “Black women, the economic crisis and the British State”, Feminist Review, 1984, 17: 21-35; Metzl, JM. “The Protest Psychosis: How Schyzophrenia became a Black disease”, 2009, Boston, Beacon Press
  9. “L'Italia in Africa smentisce la Riforma Basaglia e inaugura la costruzione di un manicomio in Kenya. Lettera aperta al Governo”, Coordinamento nazionale per la Salute Mentale, http://www.conferenzasalutementale.it/2022/06/24/litalia-in-africa-smentisce-la-riforma-basaglia-e-inaugura-la-costruzione-di-un-manicomio-in-kenya-lettera-aperta-al-governo/
  10. Si veda la puntata di “Report”, RAI, “Virus e segreti di Stato”, andata in onda il 02/11/2020, di Cataldo Ciccolella, Giulio Valesini, disponibile su https://www.rai.it/programmi/report/inchieste/Il-grande-inganno-48cf229b-d4a8-45f4-9fd3-0d4692155cbd.html
  11. Si veda il “Rapporto salute mentale. Analisi dei dati del Sistema Informativo per la Salute Mentale” del Ministero della Salute, (SISM) https://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_3212_allegato.pdf
  12. Menzies, R. LeFrançois, B. A. Reaume, G. “Introducing Mad Studies”, in Menzies, R. LeFrançois, B. A. Reaume, G. “Mad Matters: A Critical Reader in Canadian Mad Studies”, Canadian Scholars' Press, 2013
  13. McWade, B. “Recovery-as-policy as a form of neoliberal state making”, Intersectionalities: a Global Journal of Social Work Analysis, Research, Polity, And Practice, 2016, Vol 5, No 3, https://journals.library.mun.ca/ojs/index.php/IJ/article/view/1602/1331
  14. Rose, D. “The mainstreaming of recovery”, Journal of Mental Health, 2014, 23(5), 217–218. doi:10.3109/09638237.2014.928406
  15. Espressione usata da Paul B. Preciado in “Testo tossico. Sesso, droghe e biopolitiche nell'era farmacopornografica”,Fandango, 2015