Riprendendo un post pubblicato su questo blog sull' nel campo della , fa una disamina – che pur partendo dai Tre porcellini è tutt'altro che fiabesca – sulla figura dell'attivista, tra mondo dell'informazione, politica e cultura, e individuando rischi, opportunità, legami con l' e la rappresentanza.

C'erano una volta tre porcellini che si chiamavano Accessibile, Inclusivo e Sostenibile e vivevano con la loro mamma in una bella casetta al limitare del bosco…“.

Se dobbiamo usare una metafora fiabesca su come evolve la cultura, o meglio parti di essa, nel mondo della , i tre porcellini si prestano bene. Intanto per la triade sopra citata, al posto di Timmy, Tommy e Jimmy, che è immancabile in ogni scritto o discorso sulla scena pubblica di questo periodo. Poi perché la morale della favola passa dalle parti di uno dei nodi più attenzionati del dibattito. e assieme complesso e ambiguo, che è quel crocevia in cui vita indipendente, autonomia, progetto di vita, dopodinoi, empowerment, autodeterminazione, convenzione ONU, antidiscriminazione, lotta all'abilismo, corpi non conformi, attivisti, influencer e youtuber disabili…..si incontrano, scontrano, intrecciano, sovrappongono, ridefiniscono, dando luogo a quei “seduttivi immaginari e plausibili realtà” di cui parlano, a proposito delle famiglie con figli con , anche Roberta Caldin e Catia Giaconi nel loro volume “ e cicli di vita”[1]

L'intento didascalico della favola è evidente: invitandoli a crearsi una propria vita (simboleggiata dalla casa) la madre sprona i suoi figli porcellini a staccarsi da lei e a darsi da fare per diventare autonomi. Qui però entra in gioco l'edulcorazione disneyana del cartone animato che fa fuggire Timmy e Tommy nella casetta di mattoni di Jimmy dove, assieme, “fanno fuori” il lupo. Nella versione originale di metà ottocento (inserita in una raccolta di autore inglese) i primi due porcellini “il lupo se li pappa” a simboleggiare che solo facendo le cose per bene si riesce ad andare avanti, sfuggendo alle lusinghe ed ai travestimenti del lupo cattivo (“…fammi entrare per favore…”).

Una mezza idea di come potrebbe chiamarsi il lupo (o i lupi…e non necessariamente cattivi) nella nostra rivisitazione ce l'ho, ma proviamo a discuterne assieme.

E per discuterne prendo a prestito quanto scrivono su questo blog Francesca Pistone e Luca Negrogno nel loro bell'articolo “Del Disability Pride di Bologna e delle sfide dell'attivismo oggi“, uscito l'anno scorso in occasione del primo Disability Pride bolognese.

Faccio riferimento sostanzialmente alla prima parte del loro lavoro, dedicata al tema dell' in generale, senza entrare nel merito della esperienza di coabitazione di Elena e Margherita che, anche come co-promotrici del Disability pride di Bologna, vengono intervistate dai due autori su “teoria e pratica” del loro vivere quotidiano in quella che è la parte più corposa dell'articolo.

Sinteticamente…Francesca Pistone e Luca Negrogno introducono il tema dell' nell'ambito della , tra realtà internazionale e italiana, mettendolo in relazione con le culture e i modelli che nel tempo si sono succeduti (caritativo, medico, sociale) e con gli intrecci con altre realtà dell', come l'ambito Lgbtqia+ e quello della salute mentale, ad esempio (…e il femminismo, aggiungo io). Con il primo intreccio molto più praticato del secondo, almeno nella realtà italiana, per via del potere trainante delle dinamiche legate al corpo e al suo essere sessuato. Lo fanno avendo cura di storicizzare il tema e di delinearne anche alcune ombre oltre alle luci, tramite l'apporto di una ricca bibliografia quasi interamente anglosassone[2]. Lo fanno soprattutto, e qui introduco uno dei nodi che mi stanno a cuore, senza cadere nell'errore della contrapposizione escludente tra vecchio e nuovo che invece è a volte uno dei difetti più presenti nel manifestarsi dell' nostrano della/nella disabilità e del suo lessico.

Fanno bene inoltre i due autori a ricordare che l'attivismo, ed i temi ad esso connessi, fanno i conti anche con le dinamiche relative ai nord ed ai sud del mondo ed ai rischi che l'enfasi sulle discriminazioni, e su alcune di esse in particolare, nei nord ricchi e acculturati, finisca per mettere in ombra le spaventose ripugnanti disuguaglianze che affliggono enormi masse di popolazione nel mondo[3].

Chi scrive non ha però onestamente la prospettiva e gli strumenti di un ricercatore, quindi mi limito pertanto ad enucleare alcuni punti che emergono nel panorama nazionale e che si ricavano, oltre che dalla mia personale esperienza, con tutti i limiti di questo, da quanto circola nella informazione e comunicazione generalista e specifica del settore (quotidiani, settimanali, riviste, siti di informazione, newsletter, blog…) e che hanno a mio avviso, chi più chi meno, connessioni con la figura dell'attivista per come essa è e assieme viene rappresentata nell'informazione e con il tema della polarizzazione tra vecchio e nuovo nell'evolversi delle culture nella disabilità.

Procedo per punti, schematicamente e, mi rendo conto, anche in un ordine che non è necessariamente logico. Riprendendo anche da miei precedenti contributi apparsi su questo blog e nel sito superando.it[4].

 

La prima riflessione è sui rischi che corre la figura dell'attivista.

A proposito di questo aspetto, per non inserire il tema nelle considerazioni più nostrane che potrò fare più avanti, ricordo come gli autori citino le parole di un gruppo di ricercatori inglesi: “Al contempo, notano Berghs e altri, questo nuovo attivismo non è privo di critiche, rubricato da alcuni ad atto principalmente “online”, “cyber” o “digitale” poiché l'impatto quantitativo, o la vitalità online di una campagna, non sempre si traduce in un vero cambiamento. Sembra quasi, azzardano gli autori inglesi, che sia diventato di tendenza proclamarsi attivisti in termini di gestione dell'identità neoliberista, viatico di accesso alle risorse e marchio di virtù. L'attivismo è diventato un'altra merce su cui buttarsi, in termini di neoliberismo, offuscando così i confini tra consumismo, umanitarismo e resistenza”.

Mi pare un rischio reale soprattutto riferito a tre corni del problema. Da una parte l'accesso alle risorse, realizzato il più delle volte in maniera indiretta, intendendo per risorse non solo e non tanto gli aspetti economici, ma anche e soprattutto l'entrata in circuiti mediatici o politici. L'altro rischio è quello citato del “marchio di virtù” per cui l'attivista disabile dice la “verità” in quanto tale, in quanto vive sulla propria pelle la disabilità; non esiste spesso (né nell'ambito di interviste né nella gestione delle comunicazioni on line) contradditorio, relativizzazione. Se non fosse irriverente…una sorta di carne che si fa verbo la cui icona è Bebe Vio in cima ai grattacieli, nelle pubblicità[5], quasi a sfidare il divino. Eroe per forza che esalta, ridefinendone l'identità, il corpo che da de-forme transita a noncon-forme correndo il rischio però, collocandosi o facendosi collocare nel ruolo dell'eroe, di vedersi negare nuovamente il corpo come capita nella terribile frase che le persone disabili si sentono dire, attivisti o meno che siano, con l'immancabile congiunzione “nonostante” (“…una persona piena di forza, di coraggio, di voglia di vivere, che rompe gli schemi…nonostante la grave disabilità”, una sorta di Sindrome di Lavazza in cui le qualità morali e intellettuali vengono esaltate e accentuate a fronte di un corpo giudicato depauperato, minorato, in-valido…un “più lo mandi giù e più ti tira su).

Temi che si riattualizzano nell'era dei social, della comunicazione, dell'enfasi sulle discriminazioni, ma che hanno da sempre attraversato il dibattito come dimostra un vecchio articolo di Cesare Padovani, persona con disabilità che ha insegnato alla Facoltà di Psicologia a Padova, …un attivista ante litteram potremmo definirlo per certi versi, apparso sulla rivista Accaparlante nel lontano 1990[6].

Il terzo corno sono le forti attenzioni della politica, (da destra e da sinistra) al tema della disabilità, che scorrono parallelamente a quelle del mercato e che, tra l'altro, hanno il loro anello di congiunzione soprattutto attorno alla parola “inclusivo” diventata traboccante nelle interviste e nei post sui social.

 

Una seconda riflessione è dedicata al termine “attivista” e al suo imporsi sulla scena.

Anche qui potremmo ritornare alla nostra favola e cominciare con “…c'erano una volta tre porcellini che si chiamavano attivista, militante e volontario”.

Qual è la figura che occupa lo spazio tra cittadini e politica e quali sono le dinamiche che incarna, le retoriche che attiva?

Dal crollo del muro di Berlino e da Tangentopoli questa domanda è uno dei temi centrali della lunga fase di crisi e spaesamento della cosiddetta “sinistra” e di ridefinizione identitaria di quella terra di mezzo che assume via via nomi diversi: società di mezzo, prepolitico, società civile, corpi intermedi, terzo settore, cittadinanza attiva (ed altri se si passa dal dibattito politico/sociologico a quello economico), parola magica che definisce il terreno dove avviene qualcos'altro di magico; la “partecipazione” su cui molto ci sarebbe da riflettere su vecchie e nuove forme, lessici…seduttivi immaginari.

Cominciò Marco Revelli col passaggio tra militante e volontario descritto nell'ultima riga di “Oltre il ‘900” edito da Einaudi nel 2001[7], anche sull'onda di molte ricerche che indicavano il proseguire nel la precedente militanza politica (…in Emilia Romagna il dato era allora il doppio delle media italiana)[8].

Poi la politica, riassestatasi dopo l'appello alla società civile degli anni ‘90, nel 2012 richiama a sé i tanti accorsi a collaborare alle primarie del centro sinistra: “Sono militanti, non chiamateli volontari”[9]. Passano alcuni altri anni, emerge chiaramente la questione giovanile e quella dell'antipolitica e nel 2018 nuovo cambio di paradigma con un nuovo arrivo sulla scena: “Il che cambia: addio militanza, benvenuto attivismo” che ha forse la sua data e luogo di nascita con l'Expo di Milano del 2015[10].

Tempi duri per il volontario e per il militante, anche per una riforma del terzo settore che bada più al singolo che alle organizzazioni e per una partecipazione politica sempre più in calo.

L'attivista per ora pare in cima alla classifica e se ne afferma anche la superiorità identitaria. Teorizza Corinne Reier chiamata a gestire una formazione nell'ambito di iniziative di partecipazione civica a Bologna “Nella visione di ActionAid l'attivista è quella persona che si attiva e mobilita all'interno della propria comunità (sia locale che globale) con l'obiettivo di realizzare il cambiamento attraverso la propria partecipazione e cittadinanza attiva. Il “lavoro” dell'attivista è strettamente politico, seppur non necessariamente partitico, e si fonda su un'attenta analisi del proprio contesto e delle disuguaglianze e dinamiche di potere che lo attraversano coinvolgendo l'intera comunità di riferimento. Per ActionAid il rimanda invece a delle dinamiche più top-down in cui la persona segue e supporta pezzi specifici del lavoro dell'organizzazione senza necessariamente contribuire a influenzarne la strategia più ampia[11].

Questo “frullare” delle tre figure tra di loro e assieme frullare sull'asse società civile/politica è una dinamica di estremo interesse ma anche oggetto di molteplici con-fusioni cui anche la figura dell'attivista concorre.

La disabilità vive indubbiamente una fase di transizione, con il rischio spesso che non si parli di disabilità, ma della rappresentazione che i media, social e non, generalisti e specializzati, fanno delle stessa tutta, o quasi, ancorata soprattutto al tema dei diritti/discriminazione, di chi incarna questo tipo di lettura (non solo le associazioni legate di più al politichese, ma soprattutto gli attivisti) e dei modelli che mette in campo in una certa misura mutuati dal femminismo e dal settore Lgbtqia+. Non a caso ci sono molte attiviste donne e pochi uomini, e non a caso, nuovamente, dato che uno dei temi centrali, come già ricordato, è il corpo.

Va detto che quello degli attivisti (..ora anche youtuber, influencer, blogger nel loro ibridarsi con le forme della comunicazione) non è un mondo omogeneo, ci sono stili e lessici anche profondamente differenziati, con modi e forme comunicative e contesti da cui o di cui si parla molto diversificati, anche tra le donne e gli uomini che ne compongono il panorama.

 

La terza riflessione è dedicata al rapporto tra attivismo, e rappresentanza.
Detta diversamente la riflessione sul “doppio binario”

Questo è il nodo forse più complicato e chiedo scusa anticipatamente delle poche chiarezze che potranno emergere da questo scritto che vuole solo portare pezzi di riflessione al dibattito innescato da quanto scritto da Pistone e Negrogno e da chi è da loro citato. Dibattito che è ancora molto sotto traccia in Italia e anche nella città, Bologna, dove vengono pubblicate queste righe.

Occorre fare tre premesse a questa terza riflessione:

– Prima premessa: informazione, politica, cultura, c'è un gran “frullo” nel mondo della disabilità.

Attenzioni politiche, da destra e da sinistra, che da tempo non si vedevano. Complici anche il Covid e lo sparire dalle narrazioni mediatiche, salvo gli ultimissimi mesi con Cutro e Lampedusa, dei corpi altri dei migranti. La disabilità da alcuni anni serve alla politica come contraltare ai target sociali “cattivi” (migranti e rom in primis…ma anche senza dimora che provocano degrado, malati mentali pericolosi, giovani devianti nelle baby gang e nei rave party, tossicodipendenti, carcerati..), tanto da istituire un Ministero ad hoc guidato in entrambe le versioni da esponenti della Lega. Dentro a questo frullo anche una importante riflessione culturale, molto ancorata agli attivisti, che riporta al centro del dibattito, sullo sfondo della autodeterminazione, il tema del corpo come protagonista delle discriminazioni, mutuando pratiche e modelli organizzativi dal femminismo e dall'ambito Lgbtqia+. Una riflessione che ha delle parole chiave: autonomia, autodeterminazione, vita indipendente, accessibilità, lotta all'abilismo, intersezionalità…

Eppure dentro a questo fervore, dentro ad un protagonismo, dentro alle promesse di una vita indipendente ed al diritto di un proprio progetto di vita vedo balenare a volte anche il rischio di trarne considerazioni affrettate, e depotenziare così il processo culturale in corso, per capitalizzare in fretta consenso e mercato. Consenso politico e mediatico, da una parte, e mercato della non autosufficienza dall'altra, nel mantenere gli anziani consumatori per più tempo (visto che detengono la maggior parte della ricchezza) e recuperare al mercato, ai brand inclusivi, almeno le persone con disabilità motoria, acquisita in particolare, già precedentemente consumatori. L'idealtipo può essere considerato l'atleta paralimpico, considerato nella sua sfera privata, o il disabile travel-blogger che in quanto tale annulla gli immaginari di immobilità e silenzio.

– Per la seconda premessa ricorro ad un altro scritto di Luca Negrogno: “Le questioni poste dall'autodeterminazione individuale, se non vogliamo che restino solo un infinito lavoro soggettivo legato alle possibilità competitive di sopravvivere, devono essere ricondotte in un nuovo piano di azione pubblica, informata ad una epistemologia ecologica. I territori, la cooperazione sociale, lo scambio e il confronto polifonico tra esperienze e saperi, sono la base da cui partire per informare un nuovo modello di presa in carico condivisa delle nostre condizioni di esistenza, al di fuori di un modello produttivistico, prestazionale, che inevitabilmente deve sciogliere ogni legame con la ricerca individualistica del profitto come unico mediatore simbolico generale della convivenza, tra umani e con le altre specie”[12]. E qui si torma alle considerazioni sui nord e sud del mondo di cui accennavamo prima.

– La terza premessa, già in parte evocata in quanto scritto in precedenza, sta nel complesso intrecciarsi tra politica, cittadinanza e terzo settore (qui chiamato a rappresentare la cosiddetta società civile) che tende a ridisegnare, rigenerare, rimodellare il rapporto tra politica e cittadini, tra stato e società, nell'era dell'astensionismo, della crisi dei partiti, dei sindacati, della disintermediazione, dei populismi, del senso di comunità, della tentazione, che emerge qua e la, sulle e tra le righe, di creare nuove forme di consociativismo più in linea con le sensibilità e i linguaggi del tempo, all'interno delle dinamiche partecipative.

Dentro a queste tre premesse bollono migliaia di questioni tutte sospese sostanzialmente tra un non più e un non ancora e in cui poco o molto, l'attivista è coinvolto.

Più appetibile a sinistra l'attivista (…fa anche rima…) e il rischio è quello di farsi parte protagonista di una logica del doppio binario in cui, dentro la dicotomia vecchio/nuovo, due filoni culturali scorrono parallelamente, sospesi tra servizi e diritti, tra integrazione e discriminazione, tra attivisti e associazioni, tra tessere e followers, tra un “prima” e un “dopo”…. doppi binari molto più probabili là dove, nei territori, negli ultimi 20/25 anni, meno si è lavorato sulla evoluzione dei servizi (pur dentro una generalizzata esiguità del dibattito nazionale), sulla relazione con le punte più avanzate culturalmente del movimento associativo e del mondo della disabilità, sulla necessità di saperi interdisciplinari, sul collegamento con le Università dopo la stagione d'oro degli anni 70/80, sulla reale collaborazione e scambio tra PA e tessuto associativo consci delle diverse identità e finalità (a lato e oltre le ombre della riforma del terzo settore), sulla evoluzione dei modelli e delle composizioni associative e relativo tema della rappresentanza, tema sempre spinoso e non privo di ambiguità nel terzo settore e dentro questo tra le sue varie componenti[13].

Un “non più/non ancora”, stante l'inevitabile dinamica tra le diverse generazioni, che è anche fatto di incontri e scontri attorno a categorie, per fare alcuni esempi, come quelle già citate in precedenza a cui per certi versi possiamo aggiungere uomo vs donna, politico vs personale, bollettini e riviste associative vs articoli su Vanity fair e altro. Mi pare che all'oggi governino il dibattito, almeno quello pubblico, più le seconde che le prime e il tutto innerva quel doppio binario di cui sopra.

Mi accorgo di aver già scritto tanto e mi limito a dei titoli, tagliati con l'accetta, e a degli interrogativi su cui confesso non ho alcuna certezza granitica perché anche chi scrive sta dentro a dinamiche di transizione, di età, di ruolo, culturali:

– disabili unici buoni rimasti su piazza VS immigrati/rom/tossicodipendenti/senza dimora/carcerati/minori devianti, tutti cattivi?

– se è valida l'equazione degli “ultimi buoni e meritevoli” quale la posizione della rappresentanza della disabilità verso la visione più complessiva delle (povertà, sicurezza, devianza, assistenza, salute….) e non solo sullo specifico della disabilità?

– attivisti donne VS attivisti uomini? Essendo uno dei centri del dibattito il tema del corpo disabile e del suo essere e stare nel mondo…non c'è gara?

– attivisti VS associazioni, profilo Facebook VS elenco soci? si crea una élite della disabilità, in gran parte legate a persone con deficit motorio o sensoriale, che integra/sostituisce il vecchio modello della somma dei presidenti nazionali? (detta diversamente: il potere passa dai padri ad una parte dei figli?)

– se e come fare sintesi tra le diverse forme di rappresentanza nel/del mondo della disabilità tra associazioni, federazioni (che non sono la semplice somma di più associazioni e la cui capacità di rappresentanza ha anche forti differenze tra territorio e territorio), attivisti?

– ministero VS osservatorio nazionale sulla disabilità?

– il vero del detto VS il vero dell'incarnato?

– accessibilità e discriminazione VS ?

– realtà della disabilità VS rappresentazione della disabilità?

Un finale tutto interrogativo in cui si naviga a vista tentando di riconoscere ciò che è seduttivo immaginario e ciò che è plausibile realtà, cercando una sintesi che crei condivisione.

Per ultimo un ringraziamento a Francesca Pistone, a Valeria Alpi e a Simona Ferlini per le interlocuzioni e gli scambi preziosi di vedute su queste tematiche.

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Note

  1. Roberta Caldin, Catia Giaconi, “Disabilità e cicli di vita“, Franco Angeli, 2022.
  2. Solo 3 contributi italiani sui 26 segnalati. Bibliografia in buona parte tratta dalla rivista inglese Disability and Society che al momento attuale, banca dati ACNP, non pare posseduta da nessuna biblioteca italiana a riprova del ristretto perimetro del dibattito al momento. Non mancano tuttavia anche attenzioni italiane a queste tematiche e a questi approcci, al di là dello specifico dell'attivismo, come le riviste Minority Report, edita da Mimesis, Universability promossa da Anffas ed edita da Vannini, Italian Journal of special education. Citiamo anche gli interessi su questi ambiti della rivista Antropologia medica o riviste della casa editrice della Università Roma Tre. Tra gli autori, fra i tanti, Ciro Tarantino e Alessandra Straniero. In tema di correlazioni tra femminismo e disabilità, altro ambito ampiamente praticato, i molteplici contributi di Simona Lancioni su superando e informareunh e di Maria Giulia Bernardini. E se proprio volete esagerare nell'aprirvi a nuovi orizzonti culturali un occhio su quanto producono, a volte anche in tema disabilità, le riviste on line Ibridamenti, Metis e Pedagogia delle differenze, lo darei.
  3. la letteratura in materia è vasta. Tra le cose più recenti “Suicidio occidentale”, F. Rampini, Mondadori, 2022, M. Weizer, Una sinistra senza operai, Una città, novembre 2022
  4. A. Pancaldi, Caregiver, uno “sguardo strabico” sulla cura, 21/1/22,A. Pancaldi, Quale rappresentanza per la disabilità, 14/2/22A. Pancaldi, Di corpi in cima ai grattacieli, 11/4/22,
  5. Video YouTube
  6. C.Padovani, D come diversità, in HP-Accaparlante, novembre-dicembre 1990
    A. Pancaldi, Cesare, Bibì e Bibò e la leggerezza dell'handicap, in superando, gennaio 2016,Non c'è niente di peggio di diventare subito “merce”: le lettere di Pier Paolo Pasolini al giovane paraplegico, in Pangea agosto 2018
  7. Il militante diventa volontario, Repubblica 26 gennaio 2001
  8. A. Bassi, S. Stanzani, Il in Emilia Romagna, Fivol, Roma, 1997
  9. A. Cardoni, G. Sensi, Sono militanti non chiamateli volontari, Vita, 30 novembre 2012
  10. Stefano Laffi
    Maurizio Ambrosini, Volontariato post moderno, Franco Angeli, 2016
  11. Corinne Reier – ActionAid
  12. Luca Negrogno, “Partecipazione e potere nei servizi di salute mentale
  13. Si pensi alle mutazioni in atto nel terreno associativo della disabilità che vanno oltre il classico modello associativo (organizzato in base alla patologia di riferimento e governato sostanzialmente dai famigliari, con la presenza di qualche disabile “eccellente” e qualche ex operatore o amministratore) con l'aumento delle associazioni governate sostanzialmente da operatori, l'agire degli attivisti che hanno nei loro profili social e nel numero dei followers la loro dimensione “associativa”, le ibridazioni associative con i mezzi della comunicazione e con le figure professionali (fare associativo come enzima del fare professionale). per finire con modelli “associativi” promossi dal mercato stesso a supporto delle proprie strategie. Soffermandosi un attimo sul modello classico, schematizzando brutalmente, esso ha avuto tre stagioni. Quella anni 50/60 caratterizzate da associazioni articolate su scala nazionale di chi “aveva ben meritato nei confronti dello stato” (invalidi di guerra, del lavoro per servizio…) e dalle associazioni per le disabilità sensoriale eredi dei vecchi istituti per sordi e ciechi. Le associazioni anni 70/80 figlie del ‘68 e delle lotte in ambito psichiatrico e della riforma sanitaria, quelle della “deistituzionalizzazione, servizi, integrazione scolastica”, a carattere nazionale o locale, attente al sociale e non più solo al sanitario o al previdenziale. Le associazioni anni 90/00, sorte spesso a fianco di reparti di ospedale o centri clinici specializzati, in funzione della specializzazione e segmentazione delle diagnosi e dell'interesse per patologie nuove impostesi, per vari motivi, sulla scena (autismo, varie tipologie di sclerosi, disturbi dell'apprendimento, malattie rare…) e dotatesi di testimonial per la raccolta fondi. Poi con il 2000 le mutazioni non sono più solo interne al mondo della disabilità, ma si con-fondono in parte con le dinamiche del terzo settore e in funzione anche dell'agire delle federazioni nazionali e del loro essere “parte sociale” nei livelli regionali e nazionali pur con livelli di rappresentanza, a volte, con forti differenze nei diversi territori.