Il progetto “Trame educative per nuove ” è rivolto ai bambini della fascia d'età 0-6 anni e ai loro genitori, residenti nel metropolitano bolognese. È un'iniziativa che crea un sistema integrato di servizi che hanno l'obiettivo di ascoltare e orientare le famiglie, attivando nuovi percorsi educativi e azioni di sostegno alla .

Per conoscere le valutazioni finali sull'iniziativa, abbiamo intervistato Gabriella Ghermandi, responsabile del progetto per la Città metropolitana, e Roberto Maffeo, pedagogista.

Intervista a Gabriella Ghermandi
– In cosa consiste il progetto “Trame educative per nuove ”?

Il progetto “Trame educative per nuove comunità” nasce finanziato dalla “Fondazione con i bambini”. La Fondazione, per contrastare la povertà educativa minorile, aveva emesso una serie di bandi nel 2017 per varie fasce di età. Noi abbiamo partecipato al bando per la fascia 0-6, con un progetto scritto insieme a tantissimi altri soggetti del pubblico e del privato sociale, che aveva come capofila la cooperativa sociale “Quadrifoglio”. Il progetto ha coinvolto 4 Distretti della Città metropolitana di Bologna (Pianura Est, Pianura Ovest, Appennino Bolognese, San Lazzaro di Savena).

Come Città metropolitana con l'Istituzione Gianfranco Minguzzi il nostro compito era quello di realizzare incontri di formazione a sostegno della , soprattutto legati a un'ottica di delle famiglie straniere e quindi con un taglio sul plurilinguismo e il multilinguismo. L'idea era di parlare di plurilinguismo e multilinguismo a tutti, per lavorare sul fatto che ancora la italiana si descrive come monolingue mentre in realtà non esiste nessun monolingue. Tutti siamo attraversati o eravamo attraversati dai dialetti e sempre di più siamo attraversati anche da lingue non italiane attraverso quelli che si chiamano “prestiti linguistici”. Per esempio, tutta l'informatica utilizza i prestiti linguistici dalla lingua inglese, ma prestiti linguistici sono anche nelle arti marziali, nella yoga, nelle cucine. Diciamo che c'è sempre stato questo fenomeno, quindi l'idea era di proporre un nuovo modo di pensare alla lingua per le famiglie di origine italiana. Mentre per le famiglie di origine straniera si trattava di tranquillizzarle sull'utilizzo della madre lingua a casa, ma contestualmente sollecitare la frequentazione della scuola materna affinché i bambini possano acquisire l'italiano prima di iniziare le elementari. Questo per limitare il carico troppo pesante che deriva ai bambini di dover imparare contestualmente la lingua e apprendere la scrittura e la lettura.

– Come si è svolto il progetto durante l'emergenza Covid?

Il primo anno abbiamo realizzato queste attività, poi il secondo anno con l'emergenza Covid abbiamo pensato a come rispondere alla nuova situazione.  Intanto non era più possibile fare incontri in presenza e poi c'erano delle altre esigenze, per esempio l'esigenza di gestire una routine con lo smart working. I bambini, abituati alla presenza dei genitori in casa, sabato e domenica ad esempio, cioè nei giorni di festa, si sono trovati invece con i genitori a casa che però dovevano lavorare. I genitori si sono trovati in una situazione difficile, perché non riuscivano a creare un ritmo per cui bambini capissero che loro stavano lavorando in quel momento e quindi non potevano stare con loro. In conseguenza di questa situazione, c'è stato un eccessivo utilizzo dei dispositivi elettronici in quanto quando il bambino non lascia lavorare il genitore, quest'ultimo gli dà il telefono affinché si distragga. Inoltre, si è pensato di lavorare sul fatto che emergono dei conflitti, perché a star sempre chiusi in casa un certo punto l'aria si taglia col coltello. In più, anche quando sono stati riaperti gli spazi per i bambini in estate, come spiegare ai bambini la gestione della distanza nel gioco?

Abbiamo quindi fatto dei video, delle pillole didattiche, che sono state tradotte in cinque lingue: arabo, magrebino, francese, urdu e inglese. Abbiamo poi realizzato quattro incontri su “distanza e gioco”, anche per un sostegno agli educatori e ai servizi per l', dal momento che erano tutti molto disorientati su come gestire la situazione. Un incontro è stato realizzato anche per la magrebina, con una traduzione durante l'incontro. Tutto è stato fatto virtualmente e questo devo dire che è stata una sorpresa, perché la partecipazione è stata molto facilitata dal virtuale: hanno potuto partecipare persone di territori molto distanti, che altrimenti non avrebbero potuto partecipare. Avendo avuto questa risposta così forte, abbiamo pensato di organizzare altri sei incontri, sempre sulle fasi dello sviluppo del bambino.

– Qualche considerazione sulla partecipazione dei genitori?

Durante tutti questi incontri abbiamo avuto solo mamme e solo un papà afgano. Si è notata molto la differenza fra le mamme italiane e quelle straniere. Le mamme italiane erano completamente annichilite dal senso di colpa, non si rendevano conto che in realtà quello che avevano vissuto era nato dal fatto che le famiglie erano state abbandonate. Loro si sentivano di non avere avuto la forza di gestire questa emergenza e quindi si sono sentite inadeguate. Gli incontri sono serviti per far comprendere alle innanzitutto che non è stato il loro essere inadeguate, ma che era stata la situazione: come sempre la donna si fa carico di tutto, anche di ciò che non sarebbe sua competenza, la donna non è abituata a oggettivizzare quelli che sono i suoi e quelli che sono doveri che non le competono. Le mamme straniere hanno vissuto la situazione in un modo molto più tranquillo. Volevano solo indicazioni tipo “Mare sì o no, quest'anno?”.

Abbiamo programmato una serie di incontri, tra cui due dedicati solo ai papà e all'importanza della figura paterna. È buffo perché questo ha fatto emergere un po' la mancanza di confini delle : se da una parte si fanno carico di tutto, perché non riescono a distinguere tra quello che è un dovere della loro posizione e quello che è un diritto, dall'altra poi non hanno la dimensione del confine e tendono a prendere lo spazio anche dell'altra figura che hanno a fianco. Addirittura, alcune mamme si erano iscritte agli incontri dedicati al papà.

I padri hanno partecipato in 25.  In questo percorso abbiamo affrontato vari argomenti, fra i quali uscire dall'autoritarismo ed entrare nell'autorevolezza oppure la dimensione fisica con i propri figli. Gli incontri sono stati i seguenti: “Né mammo, né macho ma papà e basta”, “Orchi, streghe, lupi e oggi anche virus. Le paure dei bambini”, “Nostro figlio non ci ascolta. Genitori sotto scacco!”, “Tra rabbia e frustrazione: le pulsioni dei bambini”.

Molti genitori non solo ci hanno chiesto di proseguire, ma si sono dimostrati interessati a incontri simili per fasce di età differenti dei loro figli. In particolare, le richieste sono state per i figli più grandi soprattutto in età adolescenziale. Ci siamo resi conto che c'è la necessità di lavorare su situazioni ordinarie. Ci si preoccupa molto e si lavora molto sulle situazioni straordinarie, ma non ci si rende conto che i genitori oggi giorno spesso hanno bisogno di incontri legati all'ordinarietà delle varie fasi evolutive dei ragazzi e qualcuno che li accompagni nel fare i genitori.

 

Intervista a Roberto Maffeo
– Lei è stato il pedagogista del progetto “Trame educative”. Come si sono svolti gli incontri?

Inizialmente registravo delle “pillole” su temi educativi specifici, dagli 8 al massimo 12 minuti. I temi sono stati scelti per cercare di accompagnare i genitori nella fase difficile del lockdown.

Uno dei temi trattati è stato quello di dare delle routine ai bambini. I bambini, non avendo la percezione del tempo, hanno la necessità di sapere quello che accadrà dopo, di memorizzare il tempo attraverso delle azioni. Non hanno l'orologio, ma devono pensare a quello che succederà dopo. Un esempio è quello che caratterizza i servizi educativi del nido: c'è l'accoglienza, dopodiché c'è la merenda, poi giocano, poi c'è il pranzo, dopo c'è da far la nanna, poi arriva il genitore. Queste azioni vengono svolte in quest'ordine tutti i giorni praticamente, alla stessa ora – anche se in maniera diversa all'interno di ogni situazione. Queste azioni ripetute si chiamano “routine” e danno al bambino il senso del tempo, ma soprattutto lo rassicurano e gli fanno prevedere quello che succederà dopo. Durante il lockdown era importante dare ai bambini il senso di un tempo che trascorre, attraverso delle routine che in qualche modo dovevano somigliare un po' a quelle del nido. Cercare di mangiare alla stessa ora, cercare di svegliarsi alla stessa ora: dare un po' di abitudine, perché i bambini sono molto abitudinari e grazie a questo si rassicurano molto psicologicamente.

Un'altra pillola era sugli spazi e sul cercare di aiutare il bambino a capire che in casa non è tutto e sempre un suo spazio. Mentre i genitori lavoravano da casa, i bambini invadevano gli spazi che erano invece dedicati al lavoro. Era importante aiutare i bambini a imparare che c'erano degli spazi e c'erano dei tempi, e quindi lui doveva collocarsi all'interno di essi.

Le regole sono state un altro tema centrale. Durante quel periodo, i genitori hanno ceduto sulle regole. Bisognava poi però re-insegnare al bambino a gestire la frustrazione quando gli veniva detto di no, quando ad esempio doveva rientrare al nido e c'erano delle regole molto più stringenti. Un altro tema sul quale lavorare erano gli stati emotivi dei bambini, perché in realtà i genitori erano in uno stato emotivo molto pesante, di paura e di ansia.  C'era quindi il bisogno di dare un senso a quello che stava succedendo per gli adulti e poi di riuscire a trasmetterlo nel migliore dei modi ai bambini.

All'inizio queste pillole funzionavano molto, ne avevano molto bisogno in quel momento. Poi visto che la situazione e il distanziamento diventavano sempre più una realtà, con Gabriella Ghermandi abbiamo iniziato a pensare agli incontri online.

– Si è deciso di concentrarsi molto sui papà.

Dopo aver parlato con i genitori dell'aggressività, delle paure, dei capricci dei bambini, abbiamo deciso di dare uno spazio anche ai papà poiché tendono a partecipare molto poco.  Pare che l'educazione per i bambini piccoli sia il potere assoluto in mano alle mamme e che i papà non abbiano potere su questo. Il che è una fantasia culturale, perché ci sono varie tipologie di papà. L'idea era quella di riuscire a dare ai papà la possibilità di avere un luogo dove potessero confrontarsi e dialogare.

Abbiamo fatto un incontro dedicato alla paternità, quindi al ruolo del padre oggi. Il ruolo del padre è in crisi da secoli ormai, ma diciamo che a partire dal ‘68 in poi la crisi del ruolo femminile della madre ha portato anche la crisi della figura del padre. Entrambe le figure genitoriali sono in crisi ed entrambe possono svolgere una funzione sia materna che paterna.  Il padre può essere una persona molto accogliente, intima, e quindi parliamo di quella che si chiamava “funzione materna”, ma può essere anche la persona che dà le regole sociali, quindi quella che veniva chiamata la “funzione paterna”. Naturalmente sto banalizzando. Per le madri è uguale: ora lavorano, hanno una posizione sociale e sono in grado di raccontare al figlio cosa vuol dire stare in società; e quella sarebbe la funzione paterna di una volta. I padri a loro volta hanno dovuto conquistarsi dei pezzi dell'intimità: stare col figlio in maniera più intima, non avere solo il ruolo di chi dà le regole e basta, ma giocare con il bambino, coccolarlo, ascoltarlo. Abbiamo parlato quindi del fatto che in un rapporto di coppia uomo-donna le posizioni spesso si sovrappongono, quindi è molto importante parlarsi, condividere e cercare di trovare delle strategie comuni. Quindi decidere chi fa che cosa.

Però i papà difficilmente hanno la possibilità di confrontarsi, cioè è difficile andare in un luogo frequentato dagli uomini e sentirli parlare della loro funzione materna o paterna. Non parlano dell'educazione, proprio perché è un tema che è ancora un po' tabù. I papà, secondo me, da una parte hanno tanta voglia di prendersi delle posizioni anche materne, ma contemporaneamente fa anche comodo non assumerle. Dall'altra parte ci sono le madri che faticano a lasciare lo scettro educativo, perché loro sono in una posizione che è legittimata culturalmente da secoli. Di conseguenza ancora oggi tutti pensiamo che la madre sia più capace con i bambini piccoli. Ma questo è uno stereotipo, perché in realtà ci sono madri che fanno dei danni come anche i padri, così come ci sono papà molto bravi.  Ci sono tante dinamiche interessanti: allora ho voluto parlare con i papà, quindi abbiamo fatto un incontro di sabato mattina solo con i papà e ho chiesto a Gabriella Ghermandi di non partecipare. È stato un incontro molto bello, hanno parlato un sacco e secondo me avrebbero voglia di rifarlo.

– Qualche considerazione sull'efficacia del progetto?

La verifica più grossa è stata la quantità di gente che ha partecipato. A giugno-luglio ho avuto un incontro con 7-8 persone, mentre quando siamo partiti con la seconda edizione aveva 250 persone iscritte. Poi però abbiamo avuto degli incontri con 50-60 persone, e questo significa che abbiamo toccato un bisogno. Il grande vantaggio dell'online è che la gente è a casa e quindi abbiamo avuto veramente gente da tutti i territori. Un grande vantaggio anche per le mamme straniere, che però intervengono poco a causa della barriera linguistica. Devo dire che c'erano molte mamme straniere, ma papà stranieri forse solo uno.

– Quali sono i futuri?

Vorremo provare a sperimentare delle forme un po' diverse, provare anche ad utilizzare delle modalità narrative. Il modus operandi finora è stato che io parlo per una mezz'oretta, più o meno, e poi cerco di smuovere un po' la gente a parlare, ma con l'online è difficilissimo. Questa è la modalità classica, quasi come una lezione frontale con lo spazio per le domande. Con i papà non è andata così però, sembrava di essere in un cerchio di narrazione. Non essendo tantissimi, riuscivo a stuzzicarli e hanno parlato quasi tutti.

Mi piacerebbe sperimentare una metodologia nuova, dove gli argomenti venissero trattati attraverso la narrazione, attraverso qualcuno che ti racconta una storia.

Interviste a cura di Claudia Serra (tirocinante Istituzione Minguzzi)