Secondo c'è bisogno di sviluppare servizi sanitari territoriali profondamente democratici. Invece, puntare tutto sulla privata e la centralità degli ospedali costituisce “la ricetta del disastro”.

, Direttore del Dipartimento di della AUSL di Bologna, ha intervistato , già capo della divisione dell'Organizzazione Mondiale della per la .

 

Stiamo entrando in Italia nella sesta settimana di emergenza per la pandemia . Uno degli aspetti che ha maggiormente colpito la pubblica opinione è la impreparazione con la quale le istituzioni internazionali e delle singole nazioni si sono trovate a fronteggiare il problema.  Eppure erano decenni che se ne parlava, c'erano state importanti pericoli con la SARS, la MERS, l'Ebola.
Sulla base della tua grande esperienza nelle istituzioni internazionali e di consulenza a governi nazionali, come spieghi che la prevenzione della pandemia abbia avuto una priorità piuttosto bassa nelle agende politiche globali?

La pandemia ha mostrato che la preparazione alla risposta è fragilissima, sia da parte degli stati singoli sia da parte degli organismi internazionali. C'è in primo luogo un motivo che ha a che fare con la psicologia collettiva, ossia un atteggiamento di negazione. Si verificava la stessa cosa quando pensavamo alla nucleare: il sentimento diffuso era “in fin dei conti non succederà mai perché è improbabile che qualcuno sganci la prima bomba”.
Oggi avviene lo stesso rispetto alla questione della grande crisi ambientale ed ecologica: la gravità della crisi viene negata esplicitamente dai negazionisti più rozzi, ma nei fatti da tutti, anche da noi, che proviamo magari un po' di ansia quando sentiamo che si ritirano i ghiacciai però complessivamente non operiamo per modificare i nostri sistemi produttivi perché, in fondo, pensiamo che i problemi non riguarderanno noi ma le prossime generazioni.
Anche se sappiamo, sulla scorta di molti studi affidabili, che la catastrofe è possibile tra 10 o 20 anni, in termini molto concreti e drammatici, ad esempio di mancanza di risorse idriche, quello che tuttavia emerge è che noi non abbiamo una visione strategica e politica per tutto questo.  Probabilmente pensare di modificare il sistema produttivo è un pensiero troppo complicato da affrontare e preferiamo non agire anche se questo è colpevole.
Questo atteggiamento di rifiuto che la catastrofe possa arrivare è molto profondo e si giustifica con l'evitamento dell'angoscia oltre che con le evidenti implicazioni di politica economica dei paesi. Di fronte a queste potenziali crisi catastrofiche c'è dunque un atteggiamento di resistenza degli individui e delle anche quelle più consapevoli e quindi non mi stupisce che la pandemia sia assente dalla programmazione dei piani sanitari, tranne forse in alcuni stati come la Corea del Sud e il Giappone.
Certamente in Europa nei fatti non esiste un “Piano pandemie” capillarmente diffuso e conosciuto nei servizi sanitari. Questo spiega anche la debolezza degli organismi internazionali, compresa l'OMS.
Oggi io sento il dovere di schierarmi a fianco della OMS anche perché Trump la attacca per le sue orride ragioni politiche, ma certamente l'OMS non è stata all'altezza della situazione nell'esercitare leadership e morale sugli stati membri. Questa impotenza generalizzata dei governi e degli organismi internazionali, compresa l'Unione Europea, la dice lunga sul fatto che la pandemia è assente dall'immaginario politico strategico e programmatico degli organi istituzionali.

 

Cambierà qualcosa dopo questo episodio?

Sì, ma temo che ci sarà un focus eccessivo ed esclusivo sul rafforzamento della risposta sanitaria emergenziale. Molti dei paesi colpiti in questo mese hanno aumentato i posti-letto in rianimazione e questo aumento si consoliderà.  Tuttavia credo che aumentare la capacità di risposta sanitaria per l'acuzie, i letti di rianimazione e le apparecchiature di ossigenazione non sia una risposta sufficiente e all'altezza della situazione.
Il fallimento della Lombardia, l'implosione del suo sistema sanitario regionale è il frutto di una politica basata esclusivamente sugli ospedali. Il grande problema della Lombardia è stato quello di fare tabula rasa della medicina territoriale, (ricordiamo le dichiarazioni di Giorgetti sui medici di base: ”è vero, mancheranno 45mila medici di base nei prossimi cinque anni. Ma chi va più dal medico di base?”).
Troppo spesso abbiamo una medicina di base concepita riduttivamente come il singolo “medico della mutua”, come negli anni Sessanta, che aspetta e prescrive nel suo piccolo ufficio, e non invece come un sistema di Primary Health Care, cioè un sistema capace di erogare molto più della prestazione di un singolo sanitario.
Penso alla Primary Health Care del modello inglese: un sistema che dispone anche di infermieri e altro personale sanitario, che ha la capacità di fare visite domiciliari, di programmare anche interventi sanitari complessi.
A fronte di questa mancanza e arretratezza della medicina territoriale, in Lombardia invece, tutto l'investimento si è mosso verso una medicina ospedaliera. Il secondo grande guaio lombardo è che, in questo investimento sulla medicina ospedaliera, più del 70% del denaro della Regione va a ospedali privati convenzionati. Dunque, doppio problema: assenza della medicina territoriale e smantellamento della pubblica. Questa è stata ed è la ricetta del disastro.
La debolezza della non ospedaliera sta anche negli aspetti burocratici della medicina preventiva, nella debolezza della medicina del lavoro, nella mancanza di idee della medicina territoriale
: sembrano ambiti molto scissi e separati dalla assistenza alle persone. Ne vediamo l'esempio più lampante nella scelta di creare residenze per anziani senza porsi il problema di quali anziani possano restare a domicilio, anche se non totalmente autosufficienti, con delle forme di assistenza territoriale.
Non si fa alcuna riflessione prima di ricorrere a queste residenze assistite per anziani, che costano molto e sono di pessima qualità. Il modello lombardo viene fuori come uno dei modelli più arretrati di Italia.

 

ha firmato 20 giorni fa l'appello per la chiusura totale delle attività produttive. Questo pone il tema della limitazione alle libertà individuali, della sua intensità e della sua durata. Ci sono fenomeni che in alcuni destano preoccupazioni rispetto al rapporto tra cittadini e istituzioni.

È necessario fare una distinzione: una cosa sono le libertà individuali e una cosa è il controllo delle attività produttive. Io credo che l'intervento dello Stato sulle attività produttive non vada confuso con l'intervento dello Stato sulle libertà individuali.
Le attività produttive non sono attività di singoli individui ma di gruppi business oriented che temono la chiusura delle loro attività per motivi economici. La spiegazione dell'ultimo focolaio di Brescia è ormai nota: la forte pressione esercitata dai gruppi di industriali del bresciano ha ritardato la chiusura delle attività.  I focolai si sono sviluppati in questi territori ricchissimi di piccole e medie aziende che hanno resistito alla chiusura fino all'ultimo decreto.
Anche la posizione della Confindustria lombarda ha le sue responsabilità. Si trattava invece di dire chiaro e forte: queste persone che vanno a lavorare hanno diritto a non avere una esposizione al rischio maggiore degli altri cittadini.
Nel bresciano c'è ad esempio la rete di produzione delle armi, c'è la Beretta, ed è difficile dire che le pistole e i fucili siano produzioni essenziali durante una pandemia. Dunque, non bisogna confondere il problema, che indubbiamente c'è, del limite necessario ai poteri dello Stato rispetto alla libertà degli individui, con la questione delle attività produttive. Io credo che si è fatto bene a chiudere le attività produttive lombarde perché questo sta limitando il contagio.
Per quanto attiene alle libertà individuali, io credo che in un contesto democratico c'è comunque sempre una maggiore forma di controllo collettivo. Io non credo di sentirmi vessato nelle mie libertà individuali fintantoché a prendere le decisioni non è un singolo individuo (Orban ad esempio) ma un sistema di istituzioni in rapporto di mutuo controllo.
Questo vale anche per i sistemi di controllo individuali tecnologici. Semplicemente si passa da una società del controllo invisibile a una società del controllo dichiarata. Il problema è che, attraverso i dispositivi e le app, la polizia, Facebook, Instagram potevano già prendere informazioni sui cittadini (e ben prima della pandemia). Quello che succede oggi è che lo Stato rende visibile questo controllo già pervasivo e nascosto e paradossalmente potrebbe trattarsi di un miglioramento, perché un sistema dichiarato diventa più controllabile dal dibattito pubblico rispetto a un sistema nascosto.

 

Oggi, alla luce di questa pandemia e delle sue conseguenze sociali, economiche e politiche, dobbiamo porci il problema dell'intreccio tra dimensione globale e locale della . Possiamo definirlo un problema di ?

La ha avuto il merito di diffondere nella comunità scientifica delle evidenze scientifiche più fruibili, che possono raggiungere più facilmente dirigenti e amministratori dei servizi. Inoltre la ha contribuito a modificare la narrazione della , da una classificazione meramente biomedica delle diagnosi verso un modello che guarda molto di più all'organizzazione dei servizi e ai determinanti sociali di salute.
Il problema è che questi due importanti e positivi contributi non hanno inciso sulle prassi reali nei paesi reali.  Io ho una crescente diffidenza verso questa idea di perché quello che più conta sono le prassi a livello locale, le politiche dei servizi e il rapporto con le comunità.

 

Se parliamo di livello locale di cosa stiamo parlando?

Di coinvolgimento delle comunità e di democrazia profonda. Questo è l'argomento più importante. Questa è la domanda vera. Se l'Istituzione Gian Franco Minguzzi si sta ponendo queste domande è proprio per l'importanza di questi temi.
Bisogna creare a livello locale servizi che rispondano al problema della giustizia, al problema della vulnerabilità. Sto parlando di servizi che diano strumenti per declinare i e il diritto alla salute in formule organizzative concrete.
Abbiamo esempi importanti come le del Friuli Venezia Giulia in Italia, alcune delle Case della Salute che aderiscono al Manifesto per la Casa della Salute, ma abbiamo anche  esempi di queste esperienze innovative in altri paesi: quando a Bombay o a Calcutta le che non hanno casa si organizzano e creano delle proprie reti di solidarietà e di empowerment dal basso, abbiamo quella che Arjun Appadurai  chiama la “deep democracy”. Dobbiamo fare riferimento alla visione di Amartia Sen e di Arjun Appadurai, che ci aiutano a pensare la democrazia al di fuori di una visione “coloniale”, sostanziata dagli stimoli che vengono “dal basso”, dalle comunità vulnerabili che si organizzano per acquisire potere e coltivare aspirazioni.
Bisogna stare molto attenti a non “colonizzare” queste reti, anche se con le migliori intenzioni. Rischiamo sempre di parlare “a nome delle comunità” anche quando ci sentiamo “tecnici democratici”. Il salto che bisogna fare è che le comunità direttamente esprimano ciò di cui hanno bisogno. Bisogna trarre una grande lezione di democrazia dallo slogan degli utenti psichiatrici “niente su di noi senza di noi”.

 

Quindi lo sviluppo deve venire dai decisori politici locali piuttosto che dai tecnici?

I sindaci sono i soggetti maggiormente in contatto con le vulnerabilità delle comunità. Noi dobbiamo sviluppare in questo senso i modelli interessanti che abbiamo a disposizione, come quello delle . Le hanno forse il limite di essere troppo “micro” per potere riprodurre su scala nazionale delle formule organizzative concepite per gruppi così piccoli.
Il modello delle pone una sfida ineludibile.
Dobbiamo guardare anche all'esempio delle Case della salute: si tratta dunque di rilanciare un tema che viene da lontano ossia dalla riforma sanitaria del 1978: si tratta di costruire un luogo in cui si fa democrazia della salute. Un sistema sanitario territoriale che abbia uno sportello giustizia, uno sportello anziani, uno sportello comunità, in cui la Primary Health Care si arricchisca degli stimoli che originano dalla domanda di salute delle comunità, cosicché le risposte siano disegnate sulle domande e non predefinite.
Questa è la discussione da fare: ripensare il ruolo dei tecnici come più legato alle comunità, in una relazione equilibrata tra le popolazioni, gli amministratori locali e i tecnici. Si tratta dunque di un triangolo equilatero tra tecnici, popolazioni e amministratori.

 

Serve un forte impegno etico e sociale. Ma forse anche fantasia e creatività. Siamo in una situazione che richiede anche poesia.

C'è il rischio che il dopo sia molto uguale al prima se non pensiamo qualcosa di più radicale nella relazione tra salute e malattia, vita e morte, e felicità. Per pensare tutto questo c'è bisogno di uno sguardo sulla società che non sia limitato ai tecnici e agli epidemiologi, c'è bisogno di uno sguardo provocatorio, di una capacità di straniamento rispetto alla società attuale, per cambiarne i valori e i modi di vita. C'è bisogno di un'epidemiologia che metta al centro le popolazioni come protagoniste dei progetti di ricerca, con una capacità poetica di immaginazione, capace di connettere la solidarietà e le evidenze scientifiche.
Quello che è evidente è che occorrono altre voci, oltre a quelle dei tecnici. Occorre saper coniugare la competenza scientifica a valutazioni dal basso, creando quella epidemiologia al tempo stesso rigorosa e “poetica”, che ci è stata insegnata da Gianni Tognoni che resta un grande punto di riferimento.
La sua lezione è stata quella di aprire le valutazioni epidemiologiche al protagonismo delle comunità, alle dirette condizioni esistenziali delle persone che non erano solo “oggetti/destinatari” ma soggetti delle politiche di prevenzione.
Il periodo che ci accingiamo ad attraversare è caratterizzato da incertezze e perdite quindi è molto importante quello che state facendo come ; sarà una fase difficile da attraversare, ma attraverso queste riflessioni si possono fare germogliare le nuove visioni necessarie.

L'intervista a è di