Un'intervista a , specialista in salute pubblica, che lavora come medico di organizzazione dell'assistenza di base nel Dipartimento di Cure Primarie della Azienda USL di Bologna e in questa emergenza coordina una delle di Bologna, le Unità Speciali di Continuità Assistenziale, che si occupano di contrastare il sul .

In cosa consiste il delle ?

Il delle Unità Speciali di Continuità Assistenziale () consiste nel visitare a casa i pazienti che presentano una sintomatologia che non richiede il ricovero ospedaliero e che sono in isolamento volontario o coatto nell'ambito familiare. Le sono state istituite con il DPCM del 9 marzo, affidate alla direzione della Protezione Civile e vengono coordinate dalle AUSL. L'obiettivo principale è quello di contrastare precocemente gli effetti del COVID sul attraverso un sistema capillare e di prossimità. Le sono state immaginate come presidio per visitare pazienti COVID o sospetti tali, fare approfondimenti diagnostici e somministrare terapie a domicilio, ma su questo tema si sono affermate varie differenze tra aziende sanitarie locali.
In generale queste unità hanno avuto il merito di contribuire ad intercettare le persone a domicilio prima che si aggravassero e giungessero in ospedale quando oramai era troppo tardi.
Noi, attraverso la rete territoriale all'interno della quale le USCA sono collocate, abbiamo scoperchiato ciò che si celava sotto il lockdown: tantissime persone che da settimane erano malate a casa con situazioni sanitarie che andavano aggravandosi e che rischiavano di travolgere il sistema.

 

E cosa avete fatto?

Dopo le prime due settimane di incertezza, ciò che ha costituito il punto di svolta nella capacità del sistema sanitario di affrontare la situazione è stata la scelta di attuare anche a Bologna la sperimentazione della terapia precoce con idrossiclorochina. Si tratta della somministrazione di questo farmaco a pazienti con una sintomatologia ancora blanda, non bisognosi di ricovero, che hanno qualche linea di febbre o qualche sintomo simile a quelli di una lieve influenza.
La terapia a base di idrossiclorochina si è affermata in via sperimentale dopo un importante studio condotto a Marsiglia (1) e grazie ad un'intuizione del dott. Cavanna (2) di Piacenza che ha iniziato a somministrarla precocemente a domicilio dei pazienti proprio attraverso delle squadre di medici assimilabili alle USCA. Eravamo nella seconda metà di marzo e nel giro di pochi giorni, grazie ad un protocollo analogo sviluppato a Bologna dal prof. Viale della Unità Operativa di Malattie Infettive del S.Orsola, l'approccio proattivo e la terapia precoce hanno permesso di modificare la risposta al , modificando la storia della malattia, che sino ad allora avevamo conosciuto.
In attesa di valutare con idonei trial clinici l'effetto del trattamento precoce con idrossiclorochina, possiamo dire di aver visto in molti pazienti un miglioramento della sintomatologia e la prevenzione della polmonite interstiziale, responsabile spesso dell'insufficienza respiratoria, del ricovero in terapia intensiva e talora della morte.
Con questo approccio abbiamo ribaltato il paradigma: i servizi non erano passivamente in attesa che le persone arrivassero in terapia intensiva con un quadro clinico ormai compromesso, ma siamo andati a cercarli proattivamente, con enormi ricadute positive sulla salute delle persone e sull'organizzazione dei servizi sanitari.

 

E tutto questo lo avete fatto con le USCA?

No o non solo. Una cosa che emerge prepotentemente come lezione da questa epidemia è proprio la necessità di lavorare in rete.
Delineare un percorso che definisce quali pazienti e quando trattarli, li cerca attivamente, si coordina per visitarli al domicilio o in ospedale, si preoccupa di trasportarli in sicurezza, li isola e cerca i loro contatti stretti e magari si occupa anche degli altri loro bisogni primari, delineare appunto un percorso del genere richiede un grandissimo sforzo di coordinamento e una strategia di insieme in cui il risultato finale si ottiene solo se ognuno ha fatto la propria parte in stretta connessione con gli altri. In questo senso le USCA sono state solo una parte di questa strategia.

 

Quali sono stati gli altri elementi della strategia?

L'ospedale, le terapie intensive, gli infettivologi in TV, hanno dominato la narrativa del primo mese di emergenza. Ma se non fosse stato per il know how proprio della medicina territoriale, in virtù della sua prossimità, capillarità e continuità relazionale con le persone, l'ospedale non avrebbe potuto agire, sarebbe stato “cieco” e quindi travolto da pazienti gravi e arrivati tardivamente.
Io ad esempio ho trascorso varie settimane parlando al telefono circa 6-7 ore al giorno con i circa 90 medici di base che “coordino”, con i quali ho scambiato informazioni e supporto organizzativo. Gli MMG a loro volta hanno mantenuto un contatto costante con i loro assistiti e sono state le antenne del sistema, attivandolo su ogni paziente con sintomi suggestivi di COVID. Altri colleghi si sono impegnati per strutturare a tempo di record modalità informatiche perché gli MMG potessero indirizzare agevolmente questi pazienti in ospedale, dove potevano sottoporsi a visite infettivologiche, approfondimenti diagnostici e l'eventuale somministrazione precoce di terapia. Altri hanno lavorato coordinandosi con la centrale dei trasporti per prevedere l'arrivo sicuro di questi pazienti in ospedale. Altri ancora hanno reclutato e formato gli operatori per i nuovi ruoli richiesti, il tutto mentre arrivavano ogni giorno richieste di risoluzione a problemi mai affrontati prima, come lo scoppio dei focolai epidemici nelle strutture residenziali socio-sanitarie.
Tutto ciò ha richiesto la messa in rete di due enormi aziende sanitarie: l'Azienda Ospedaliera Universitaria S.Orsola e l'Azienda USL di Bologna. E anche se la strategia complessiva di Bologna ha centralizzato abbastanza la gestione dei pazienti sospetti COVID sull'ospedale, mi sento di dire che è stata una strategia di rete e per questo che ha funzionato.

 

Una strategia ben diversa da quella lombarda…

A onor del vero dobbiamo dire che rispetto alla Lombardia ci ha sicuramente favorito il fattore tempo: abbiamo avuto più tempo per attrezzare una risposta territoriale prima che la diffusione del virus esplodesse in maniera incontrollata negli ospedali. La presenza di una possibile terapia ha contribuito molto ed è apparsa a tutti come una speranza concreta alla quale aggrapparsi, ma il fattore da non sottovalutare, anche se meno visibile, è soprattutto che a questa epidemia preesistesse una rete territoriale strutturata.
Come è stato giustamente affermato da autorevoli osservatori: le epidemie si battono sul e non in ospedale. E' proprio a partire da questo ragionamento che dobbiamo riflettere.
Quanto è accaduto in Lombardia deve diventare un caso di studio, un modello da evitare per qualunque sistema sanitario. E non parlo della gestione dell'epidemia, ma dell'organizzazione del sistema e dei presupposti sui quali si regge: l'ospedalocentrismo, l'iperspecializzazione e la competizione tipica dei sistemi di quasi-mercato, dove l'ideologia del “competere è meglio che cooperare” è funzionale a garantire qualcosa che nulla ha a che vedere con la tutela della salute: il profitto economico.
Tali presupposti hanno inficiato notevolmente l'organizzazione delle cure territoriali già per loro strutturazione giuridica frammentate, depauperandole ulteriormente.

 

E quindi a Bologna è andato tutto bene?

No. Sinora ho parlato di servizi assistenziali: le cure primarie, gli ospedali, i servizi domiciliari, ma non si può parlare di gestione di un'epidemia senza menzionare i servizi di prevenzione
In molti luoghi, compreso a Bologna, i Servizi di Igiene e Pubblica sono risultati sin da subito sommersi: hanno pesato la scarsa preparedness [ndr. preparazione all'epidemia] , la carenza di personale e la scarsità di risorse, un sistema organizzativo non sufficientemente consolidato.
Così in molti casi le regole auree della prevenzione delle malattie infettive sono venute meno: non si sono fatte diagnosi tempestive attraverso i tamponi, non si sono isolati i casi, non si è condotta un'adeguata inchiesta epidemiologica per ricostruire le reti dei contatti ed isolarli, spesso le certificazioni di quarantena o della fine della stessa non sono arrivate e non escludo che alcune persone siano tornate a senza evidenza di una chiara guarigione virologica.
Di questa evidente impreparazione della Pubblica italiana si è detto già di tutto e in particolare adesso ci si vorrebbe illudere che una app o un'infinita disponibilità di tamponi possa risolvere il problema.
In realtà non stiamo affrontando il focus del problema, che invece ha a che vedere con uno dei nodi che affligge da sempre i sistemi complessi come le organizzazioni sanitarie: l'integrazione, verticale e orizzontale.
Abbiamo vissuto una mancanza di coordinamento paradossalmente proprio tra servizi territoriali di prevenzione e quelli di cura (Dipartimento di Pubblica e medici di base soprattutto), abbiamo lavorato moltissimo reindirizzando la macchina organizzativa per far comunicare queste due anime in maniera efficace e coerente. Ci siamo in parte riusciti, ma solo dopo molti sforzi e due mesi di lavoro incessante. Ed è uno spunto importante su cui riflettere.
Abbiamo bisogno di una strategia organica, che integri tutti gli attori e i processi che a vario livello operano nella prevenzione di questa epidemia: una strategia in cui far convergere le modalità dell'inchiesta epidemiologica, quelle dell'effettuazione del tampone, ma anche un sistema sentinella molto capillare con il potenziale di individuare precocemente i siti focolaio, isolare prontamente gli infetti, saper richiamare risorse in tempo reale e poggiare su una procedura che dal micro al macro livello istituzionale condivida chi fa cosa mettendo a disposizione interfacce chiare.
Il tutto rendendo trasparente ai cittadini anche gli spazi grigi dell'incertezza e delimitando il perimetro delle scelte che possono poggiare sulle evidenze scientifiche distinguendole da quelle che poggiano necessariamente sul bilanciamento di più aspetti ed interessi, campo questo della politica.
Inoltre, senza aprire il capitolo delle scelte effettuate dalle istituzioni governative centrali, mi limito a sottolineare che anche all'interno dell'emergenza pandemica la provincia di residenza ha troppo spesso definito la prognosi dei pazienti. Una cosa inaccettabile, e lo dico da cittadina.
Anche questo dovrebbe portarci a riflettere sul tema dell'integrazione verticale del nostro sistema, relativamente alle competenze centrali e periferiche, anche perché siamo entrati in questa emergenza mentre eravamo nel pieno del dibattito per l'autonomia regionale differenziata.
E quando guardiamo in questa ottica al tipo di risposta che è stata data a questa epidemia, occorre mettere mano all'organizzazione e superare la frammentazione esistente. Io sinceramente auspico l'apertura di un dibattito serio che porti ad una riforma radicale del servizio sanitario. Non si può tornare a lavorare come se nulla fosse stato.

 

Quali rischi vedi in questo momento?

Il rischio che non dobbiamo assolutamente correre è che gli avvenimenti odierni lascino una traccia parziale e distorta nelle organizzazioni sanitarie e nell'immaginario diffuso, approfondendo la centralità degli ospedali e riducendo l'importanza del . O ancora peggio, ibridando il con logiche proprio della medicina specialistica ed ospedaliera.

 

Cosa intendi? Qual è allora il ruolo della medicina territoriale in un contesto come quello attuale e per il prossimo futuro?

E' necessario che nella lunga fase che ci aspetta, di “convivenza con il virus”, la rete territoriale venga rafforzata e potenziata perché solo attraverso di essa si può consentire una reale vicinanza ai bisogni di salute, tanto maggiori quanto maggiore è la fragilità degli individui e delle che li esprimono.
Organizzare bene l'assistenza sul territorio esprime un'idea di società più equa in termini di accesso ai servizi e di ridistribuzione delle risorse. E' quindi una scelta politica prima che tecnica. Tuttavia richiede delle competenze specifiche da spendere all'interno di una rete più complessa.
Una rete funziona solo se ognuno fa bene il proprio lavoro, pertanto ritengo importante che la medicina territoriale approfondisca e al contempo rafforzi le sue specificità cercando connessioni sempre più strette tra tutti i servizi e le attività territoriali, con ampio ricorso a una rete orizzontale di competenze diverse che dialogano e costruiscono un'organizzazione sanitaria più sensibile alle esigenze della popolazione.
La medicina generale, la , l'assistenza infermieristica, la prevenzione, la promozione della salute, la riabilitazione e tutto l'ambito dell'assistenza sociale: il campo da rafforzare ed integrare è questo.
Non abbiamo nulla di nuovo da inventare, se non ripartire da quanto la Dichiarazione di Alma Ata esplicitava già nel 1978. In questo senso l'epidemia ci pone sfide che riusciremo a superare solo attuando una strategia di autentica Comprehensive Primary Health Care (3).
Oltre al COVID, in questi mesi le persone non hanno smesso di soffrire delle patologie croniche da cui erano affette in precedenza. L'attività sanitaria programmata è stata per lo più sospesa in questi due mesi e molto probabilmente ci troveremo a vedere gli effetti di questa sospensione. Dobbiamo prepararci, essere capaci di gestire contemporaneamente il carico di malattia derivante da patologie croniche, con tutte le accortezze e la necessità di essere preparati ad altri outbreak epidemici.
Come dice l'OMS non dobbiamo sottovalutare l'importanza di abitudini salutari, né ritardare le campagne di screening. Probabilmente avremo bisogno di rafforzare la compagine riabilitativa dei nostri servizi e quella domiciliare, dato che sarà necessario ridurre la pressione sulle strutture residenziali socio-sanitarie.
Sarà importante fare scelte chiare e trasparenti su chi e come ha la responsabilità clinica sul territorio e con quali strumenti e competenze, lavorando a chiari sistemi di invio (referral e contra-referral) tra tutti i servizi in linea verticale e orizzontale dell'articolato sistema sanitario. In questo quadro vedo necessario che l'ospedale non abbia paura di mettere a disposizione del territorio il proprio sapere, esprimendo linee guida chiare, formazione e consulenza sui casi più complessi.
Vedo imprescindibile una interfaccia diretta informatica (come la stiamo sviluppando a Bologna) tra gli MMG o le USCA e il Servizio di Igiene e Pubblica dove richiedere prontamente tamponi, consulenze, fare segnalazioni e attivare sistemi sentinella. Capillarità e prossimità ci aiuteranno a spegnere l'eventuali focolai che si ripresenteranno se i sistemi saranno ben integrati.
Supportare la domiciliarità da sempre richiede di entrare davvero nella vita delle persone, delle famiglie e delle , guardando olisticamente al problema di salute, fuori da una logica individualistica e bioriduzionista.
Saranno (sono e dovevano essere già) centrali le politiche volte a garantire ad uno dei pilastri nascosti del nostro sistema di : le badanti, le colf e chi in genere (femminile) si occupa dell'arduo lavoro di cura.
Sarà necessario rafforzare il livello generale di health literacy nella popolazione e pensare a come raggiungere le più fragili mettendo in campo azioni inedite volte ad agire anche sui determinanti non sanitari della salute, nell'ottica di prevenire il diffondersi di malattie contagiose o croniche.
Le competenze epidemiologiche, oltre a restituire visioni di insieme utili alla macroprogrammazione, dovranno riorganizzarsi per essere a servizio della , generando saperi ed evidenze situate e geolocalizzate, per promuovere micropolitiche di contrasto a tutte le forme di malattia e povertà, a partire dai quartieri e dalle periferie.
Citando un celeberrimo tema epidemiologico evidenziato da Geoffrey Rose (4) nel 1985, il mio maestro Francesco Taroni (5), in un recente articolo scritto per commentare gli effetti presenti e futuri dell'epidemia di coronavirus sul nostro SSN, riporta con grande acume l'attenzione su questo possibile ruolo emancipatorio dell'epidemiologia quale “progetto di ricerca [che] si ripropone oggi come capacità di lettura della concatenazione delle reti di relazioni sociali di piccole e grandi , per la gestione dell'epidemia e per molto altro a venire” con l'obiettivo di mettere le “in condizione di acquisire la consapevolezza del problema e di gestirne la soluzione (ora probabilmente si direbbe “empowered”).”

 

Quando parli di questa medicina territoriale hai in mente dei modelli organizzativi concreti?

Non ho la pretesa di racchiudere tutto in un modello definito, anche perché non ce ne sono. Sono molteplici gli aspetti da affrontare, in primis come riuscire a coniugare il bisogno evidente di riformare l'assistenza territoriale in molte parti d'Italia, dove ad esempio i Servizi Infermieristici Domiciliari sono stati esternalizzati e di assistenza domiciliare se ne fa poca e male.
Altro tema annoso è la questione dei medici di medicina generale e non solo in virtù del loro rapporto convenzionale, quanto per le modalità di lavoro in molti casi troppo vetuste e solitarie, per la formazione poco valorizzante, per le forti dinamiche corporative spesso preclusive al cambiamento, per la scarsa capacità dell'organizzazione di ascoltarli ed imparare dal loro essere prossimi al cittadino.

In ogni caso i modelli di riferimento per la medicina territoriale cui mi riferisco sono quelli che si basano su alcuni fermi principi:
a) La territorializzazione: sia in chiave di programmazione del fabbisogno che di dispiegamento dei servizi di base. Servono équipe di operatori per i servizi di base dedicati a territori piccoli (trovo equilibrato il calibro di 30mila abitanti espresso nelle delibere regionali sulle case della salute) e geolocalizzati.
b) Le risorse non devono essere uguali per tutti i territori ma “aggiustate” per fattori demografici, socio-economici ed epidemiologici, tenendo conto che dove c'è maggior deprivazione c'è maggior malattia
c) Non si devono scindere i bisogni della persona: il territorio deve essere capace di esprimere una cura, un'attenzione, che tenga conto di tutti i determinanti della salute
d) Il lavoro territoriale deve essere di équipe: la territorializzazione deve servire a fare sintesi in quella frammentazione che esiste a livello più alto, tra e salute fisica; tra prevenzione, cura, riabilitazione e palliazione; tra sanitario e sociale.
e) Quindi servono anche strumenti flessibili (come i ) capaci di attraversare gli steccati tra i (budget dei) servizi
f) Riformare il modello di finanziamento, introducendo strumenti che valorizzino i risultati in salute (pagare la salute e non la malattia)
g) La porta di entrata al sistema deve essere unica per la persona che si rivolge ai servizi
h) Si deve far leva sulle capacità dei singoli e delle di prendere a mano la propria salute ed esprimersi sulle scelte sanitarie che li riguardano.

Potrei dire che esempi di modelli che assumono alcuni di questi principi esistono o sono esistiti in vari luoghi del mondo (Portogallo, Catalunya, Brasile, Finlandia, UK, ecc.) o di Italia ( in primis il modello delle di Trieste a cui ci siamo largamente ispirati nelle sperimentazioni analoghe partite a Bologna a Piazza dei Colori o in progettazione a Pescarola): ma la cosa più rilevante sarebbe aprire sul ripensamento dell'assistenza territoriale un dibattito partecipato da esperti e laici, politici e organizzatori, e uomini per mettere a disposizione tutta l'intelligenza collettiva esistente in questo Paese, al fine di trovare la nostra via.

Fino a quando rimarrà un dibattito tecnico, ho paura che saremo in stallo e che i rapporti di forza, necessari ad attuare i grandi cambiamenti, ci vedano perdenti.

 

Intervista a cura di Luca Negrogno

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(1) Gautret P, Lagier JC, Parola P, Hoang VT, Meddeb L, Sevestre J, Mailhe M, Doudier B, Aubry C, Amrane S, Seng P, Hocquart M, Eldin C, Finance J, Vieira VE, Dupont HT, Honoré S, Stein A, Million M, Colson P, La Scola B, Veit V, Jacquier A, Deharo JC, Drancourt M, Fournier PE, Rolain JM, Brouqui P, Raoult D. Clinical and microbiological effect of a combination of hydroxychloroquine and azithromycin in 80 patients with at least a six-day follow up: A pilot observational study. Travel Med Infect Dis. 2020 Apr 11:101663.

(2) The Italian Doctor Flattening the Curve by Treating COVID-19 Patients in Their Homes

(3) WHO has developed a cohesive definition based on three components:

-meeting people's health needs through comprehensive promotive, protective, preventive, curative, rehabilitative, and palliative care throughout the life course, strategically prioritizing key health care services aimed at individuals and families through primary care and the population through public health functions as the central elements of integrated health services;
-systematically addressing the broader determinants of health (including social, economic, environmental, as well as people's characteristics and behaviours) through evidence-informed public policies and actions across all sectors;
-empowering individuals, families, and communities to optimize their health, as advocates for policies that promote and protect health and well-being, as co-developers of health and social services, and as self-carers and care-givers to others.

(4) G. Rose (1985), “Sick individuals and sick populations”. In International Journal of Epidemiology, 14, pp. 32-38.

(5) F Taroni (2020) “Andrà tutto bene? Come sta funzionando il Servizio Sanitario Nazionale” in L'epidemia che ferma il mondo Economia e società al tempo del coronavirus. Scaricabile su www.sbilanciamoci.info.