Tra i numerosi libri usciti nel 2024 per ricordare il centenario della nascita di (presentati presso la nostra ) si aggiunge ora un ulteriore volume di , “In terra incognita. Disegnare una società che cura dopo Basaglia”, considerato da , che ci offre questa recensione, come il più importante, in quanto espressione di una prospettiva originale, da osservatore estero al sistema dei servizi di nel periodo cruciale della . Lo sguardo lucido, attento dell’autore propone infatti una lettura senza sconti e forse un po’ “scomoda” del passato, del ruolo di alcune figure carismatiche – non solo Basaglia -, di alcune esperienze importanti ma rimaste sullo sfondo rispetto all’esperienza triestina, ponendo interrogativi cruciali sull’eredità del movimento anti-asilare, dopo la chiusura dei manicomi, nella stagione attuale caratterizzata da un “epocale calo di tensione”, ma fornendo anche sollecitazioni positive per “sporgersi avanti” e disegnare città che curano.

“Sono cocciutamente convinto che, per rimettere in moto la spinta a disegnare una società che curi senza mura, più che le armi delle emozioni, occorra affilare quelle della ragione.”

E questo il messaggio centrale che Giuseppe A. Micheli ci trasmette con il suo libro “In terra incognita – Disegnare una società che cura dopo Basaglia” (Mimesis, 2024), uscito nel centenario della nascita dello psichiatra veneziano, con il quale ci offre una prospettiva originale sul passato, il presente ed il possibile futuro del sistema di . Considero questo libro come il più importante tra quelli usciti nel centenario appena trascorso.

Micheli[1] è un attore non protagonista del sistema di , un osservatore che per una serie di circostanze ben spiegate all’inizio del libro, ha avuto il privilegio di avere come compito quello di osservare e descrivere il sistema di nelle fasi cruciali della Riforma, tra il 1976 ed il 1982, senza prendervi parte attiva. In quegli anni Micheli, giovane ricercatore ricco di diversificate esperienze formative entrò a far parte del gruppo di lavoro istituito presso il CNR per iniziativa di Basaglia, Maccacaro, Minguzzi e Misiti. Ebbe così modo di poter seguire da osservatore attento (e obiettivo) gli straordinari personaggi che animarono quell’epoca, le evoluzioni dell’universo policentrico del movimento anti-istituzionale, le continue rielaborazioni concettuali che man mano che progrediva il lavoro si rendevano necessarie, i conflitti ideologici ed a volte personali, i modelli che si venivano sperimentando e le soluzioni che poi si sono andate sedimentando.

Ma concluso il suo lavoro, pur dedicandosi principalmente ad altri settori della ricerca sociale, non ha mai smesso di osservare il sistema di italiano e di registrarne con impressionante lucidità le vicissitudini, le traiettorie, gli sbandamenti, i recuperi, le cadute e le risalite. È probabile che proprio la sua posizione decentrata, oltre ad una straordinaria capacità di pensiero critico, costituisca il valore aggiunto della lettura che ci offre in questo libro, scevro da ogni memorialistica o monumentalizzazione delle icone del passato che purtroppo hanno costituito la nota prevalente della produzione sul tema. Il libro inoltre è arricchito da una bellissima prefazione critica di , che dietro apparenti dissensi, mostra l’apprezzamento ed anzi l’ammirazione per la ricerca dell’autore.

Nella introduzione si trova la prima idea fondante della proposta di Micheli: il 1978, l’anno della approvazione della 180, l’anno della vittoria del movimento anti-istituzionale, ebbene il 1978 segna anche l’anno in cui si verifica quella inversione di tendenza della tensione etica, politica e professionale che porterà progressivamente all’inaridimento ed alla stagnazione odierne. Per come nacque, per le condizioni socio-politiche dell’epoca, per alcune caratteristiche prettamente italiane, la riforma avvenne sulla base di presupposti eticamente e scientificamente corretti (l’azione patogena asilare), senza pensare troppo a cosa fare dopo l’abbattimento delle mura manicomiali. E cruciali nella comprensione di cosa è avvenuto nei successivi quarant’anni è la descrizione degli scricchiolii e delle incongruenze piccole e grandi che si manifestarono già tra il 1978 ed il 1980 ed in misura più chiara e completa tra il 1980 ed il 1990.

Tale percorso è descritto come una sorta di “vite parallele” dei leader dei centri chiave della Riforma, che diedero forma a modelli diversi: Basaglia a Trieste, Jervis a Reggio Emilia, Francesco Scotti a Perugia San Sisto e Carlo Manuali a Perugia città. Ed in modo più approfondito si delinea la duplice, dissonante, esperienza perugina come modello dotato di una profondità di analisi e di una comprensività di proposta forse persino superiori alla esperienza triestina.

Una seconda idea particolarmente acuta nella analisi di Micheli consiste nel segnalare come le esperienze più significative si verificarono in piccoli centri di provincia: Varese, Reggio Emilia, Trieste, Perugia. Cioè laddove non vi era una accademia presente, il tessuto sociale aveva una trama comunitaria più solida, tecnici e politici lavoravano gomito a gomito, dove c’è “una sfera pubblica ragionante”. Tale osservazione, oltre al valore storico che ha di per sé, risulta particolarmente utile nel sottolineare la inutilità del richiamare ad una dimensione comunitaria generica (ma in realtà pensata idealmente come nelle comunità provinciali degli anni ’50-’70) le politiche di salute mentale odierne, sia perché già in quegli anni esse non attecchirono per nulla nelle grandi città, sia perché di quella società oggi non vi è più traccia.

Una terza idea particolarmente rilevante, che a mio avviso racchiude il nodo teorico centrale del sistema di salute mentale italiano di tutta la post-riforma, riguarda la questione che Micheli chiama “impairment primario”, vale a dire: in ciò che chiamiamo malattia mentale o che comunque è l’oggetto della istituzione psichiatrica, esiste un quid prettamente individuale, qualcosa che indipendentemente dalle condizioni ambientali, costituisce per la persona motivo di sofferenza, svantaggio, disabilità, malattia. La scoperta della azione patogena dell’ambiente che avrebbe dovuto essere terapeutico (il manicomio) produsse (insieme a molte teorie importate dagli USA e da altri paesi europei) la famosa “messa tra parentesi” della malattia mentale. Ma tali parentesi non sono mai state tolte dall’apparato ideologico dei nostri servizi, anche se nella pratica ci si è mossi poi sempre nella piena consapevolezza che quel quid esiste e che richiederebbe uno studio ed una conoscenza che non può essere delegata solo alla neurobiologia. Leggendo Micheli ho scoperto che tale consapevolezza animava già in quegli anni fondanti, per quanto in forme diverse, sia Jervis a Reggio Emilia, sia Scotti e (soprattutto) Manuali a Perugia. E che i modelli che elaborarono e praticarono ne tennero ampiamente conto. Sul perché poi prevalse un solo modello, quello triestino che non ammetteva tale ”impairment” ma si rivolgeva esclusivamente all’ambiente, Micheli ci offre degli spunti interessantissimi che chiama elegantemente “scivolamenti di Gestalt”. Detto con parole mie, che Micheli potrà magari non condividere, il principio Basagliano della minoranza egemonica produsse un movimento minoritario ma potentissimo politicamente che per superare tutte le aporie che si erano evidenziate già tra il 1978 e il 1980, non ammise la compresenza e la dialettica con modelli paralleli. Che i servizi territoriali necessitassero di risorse ancora maggiori dei manicomi (“strutture dissipative”), che il problema della libertà e della direttività in non si poteva definire aprioristicamente con uno slogan (vedasi come si stava affrontando il tema delle tossicodipendenze e del successo della ricetta di San Patrignano che attirò anche alcuni professionisti triestini toccati dal problema), la scoperta che anche il buono poi del tutto buono non poteva essere, visto che continuava a generare malattia ed a produrre cronicità anche senza il manicomio: ecco queste sono le aporie già evidenti in quegli anni rispetto alle quali Jervis, Scotti, Manuali ed altri proposero e praticarono modelli che prendevano in considerazione l’”Impairment” in modo originale e con soluzioni interessantissime, ma che per la forza onnivora del modello basagliano andarono disperse negli anni. Il risultato di ciò è che oggi le risposte praticate a quel quid sono tutte di provenienza dalla neurobiologia e dalla evidence-based medicine psicosociale. Un vero peccato.

Se nella prima parte del libro si analizzano con rigore storico la formazione del paradigma anti-asilare e le dinamiche interne al movimento di riforma, nella seconda parte Micheli esplora due aspetti fondamentali conseguiti alla : i luoghi dell’incontro con la sofferenza e i modi del contatto e della cura, declinati in forme di intraprese sociali o di intervento su crisi. Il risultato è un quadro tratteggiato senza sconti e senza certezze, che invita a una riflessione profonda sulle trasformazioni necessarie per una società che si prenda realmente cura delle persone con sofferenza psichica.

Rispetto ai luoghi, trovo coraggiosa e profondamente corretta la sua impietosa descrizione della distanza assoluta tra il come dovrebbe essere e il come è la realtà odierna. Il paradigma anti-asilare radicale che si è imposto in Italia prevede che ogni forma di istituzionalizzazione sia da considerarsi evitabile e negativa. Ciononostante oggi abbiamo milioni di persone confinate: a casa loro, in carcere, in ospizi, in comunità per , in strutture per l’handicap, in reparti psichiatrici ospedalieri pubblici e privati, in centri di accoglienza per migranti etc… La maggior parte in maniera non scelta ed in luoghi che molto spesso riproducono almeno in parte le dinamiche asilari.

Eppure vi sarebbe necessità di luoghi-rifugio. Di eterotopie, luoghi “nei quali poter diventare”: perché “ci sono regioni della società che producono la pazzia”, perché le ricette comunitarie che vengono spesso riproposte sono un mito derivato dal ricordo delle società di provincia degli anni ’50, perché “la verticalità umana ha bisogno di sguardo, ma anche di silenzio”. Questo è un ottimo inizio per cominciare a disegnare una società che cura dopo Basaglia, come indica il sottotitolo del libro.

Una caratteristica del sistema di salute mentale italiano è costituita dalle Intraprese sociali, esse stesse delle eterotopie: cooperative sociali, polisportive, compagnie teatrali, gruppi di auto-mutuo-aiuto, esperienze di supporto tra pari… Grandi ricchezze da un lato, ma “città nelle città” dall’altro, opportunità per avere la “libertà da” ma non sempre la “libertà di” (secondo la famosa distinzione di Isaia Berlin), come opportunità di liberazione delle relazioni, ma anche organizzazioni sociali parallele, contenitori a se stanti. La intuizione di Micheli è che esse possono esercitare sì un effetto terapeutico, ma indiretto, attraverso il loro “trattar bene le persone”, con rispetto (direbbe Richard Sennett). Ma che per affrontare quel quid, “quell’impairment” primario che Manuali aveva ben descritto sono necessari setting relazionali ad alta intensità che possano generare quelle esperienze di “flow” (Cziskenmihaliy) che raggiungendo la radice della esperienza psicotica ne prevengano il “risucchiamento” nell’inconscio (Ciompi).

Tali caratteristiche si ritrovano soprattutto nel modo in cui i diversi sistemi hanno codificato l’intervento sulla crisi. A partire dal protocollo Caplan del 1964, le prime esperienze italiane e soprattutto quelle perugine, fornivano un intervento di crisi strutturato e molto oneroso, ma finalizzato ad una piena rielaborazione della esperienza e a una restituzione completa di significato, nonché di piena riacquisizione di funzionamento sociale. Tutti i modelli di intervento sulla crisi oggi dominanti a livello internazionale sono invece interventi di stabilizzazione rapida e neurolettizzazione preventiva. Qualcosa indubbiamente è andato perso. Soprattutto relativamente all’incontro.

È all’incontro che è dedicato l’ottavo ed ultimo capitolo nel quale si trovano notevoli spunti di interesse. L’oggetto, anzi gli oggetti della sono fondamentalmente tre: poveri, folli e “meteci”. I servizi italiani in un modo o nell’altro si sono strutturati sui primi due, ma i meteci, se va bene ricevono attenzioni con modalità che sono state strutturate su poveri e folli. Ma chi sono questi “meteci”? Oggi sono la maggioranza, una moltitudine di nevrotici, di disadattati, di dipendenti da droghe o comportamenti, anoressici, migranti smarriti, psicotici semicronicizzati, deboli mentali non troppo deboli…. La “risacca dei rimasti”, le “petites misères”, gli avviati alla psicobiologia…

Uscendo dalla panoplia delle emozioni ed affilando le armi della ragione, Micheli propone di ripartire da Manuali, secondo il quale “bisogna essere competenti”, lasciando indizi e segnali per una nuova competenza che si addentri non solo nella lotta per una società più giusta, ma anche nei meandri di una “socialità seconda” che alligna nelle famiglie e nelle relazioni, che è fatta soprattutto di affettività ed immaginario, più che di rapporti di potere e di classe. Un sistema di cura che affronti le ferite umane con lo stupore fenomenologico e lo sguardo etnografico.

È la comprensione che già nel 1677 animava Spinoza: “Non schernire, non compatire, non detestare la miseria umana”. Con queste parole Micheli conclude il suo libro, che come ogni opera importante apre più domande di quante non trovino risposta.


psichiatra, membro CdA Istituzione G. F. Minguzzi

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NOTE

  1. ​Imboccata la strada della ricerca scientifica come modellista matematico, Giuseppe A. Micheli (Carrara, 1948) ha successivamente ricoperto dal 1986 al 2018 la cattedra di Demografia alle Università di Palermo, Cattolica di Milano, infine Milano Bicocca, ove per un quadriennio ha presieduto la laurea triennale in Sociologia. È autore di oltre duecento pubblicazioni tra volumi e articoli su riviste scientifiche in un ampio arco di discipline (da Genus a Demographic Research, da Quality & Quantity al Giornale degli Economisti, dai Quaderni di Sociologia alla Rassegna Italiana di Sociologia a Meridiana, da International Review of Sociology a European Journal of Population a Journal of Family History), sempre cercando di gettare ponti tra comunità scientifiche anche distanti tra loro. Alcuni dei suoi contributi (Derive. Stati e percorsi di povertà non estreme, 1995; La nave di Teseo. : identità nel cambiamento, 2002; Strong Family and Low Fertility: a Paradox? 2004; Logiche affettive. Il potere d’interferenza degli stati d’animo nella formazione delle scelte, 2010) hanno lasciato una loro impronta sui rispettivi studi di settore. Tra i volumi più recenti (2021) La famiglia mediterranea sull’antropologia dei legami di sangue, e Preferirei di no: perché il crollo delle nascite ha radici lontane (definito “the best Italian book of sociology in the last ten years, with a new scientific program, full of important sociological breakthroughs”).Capitolo a sé è l’interesse, prolungato nel tempo, per il tema della riformata: a I nuovi Catari. Analisi di un’esperienza psichiatrica avanzata (1982) fa seguito Il vento in faccia. Storie passate e sfide presenti di una senza manicomio (2013). Un contributo su History of Psychiatry (Not just a one-man revolution: the multifaceted anti-asylum watershed in Italy, 2019) anticipa il recente In terra incognita.