Stiamo vivendo un periodo buio per i valori della democrazia, cancellati dalla sconsiderata politica trumpiana, che ha messo al bando parole come “accessibility”, “disability”, “diversity”, “equity”, “inclusion”, “elderly”, insieme ad altre 250 parole. Noi, come Istituzione, non ci riconosciamo in questo “atto agghiacciante di censura” e fedeli alla nostra mission continuiamo il lavoro di analisi e di ricerca sui temi della disabilità, della diversità e dell’inclusione, per contrastare una generale deriva di insabbiamento teorico e metodologico su questi argomenti e affermare l’importanza di una visione culturale alternativa. Ne è un ottimo esempio il report di Francesca Pistone, centrato su un tema poco analizzato ma quanto mai cruciale nei rapporti interpersonali, dell’accessibilità relazionale.
Cosa intendiamo per accessibilità relazionale?
Innanzitutto, l’accessibilità è una nozione dinamica soggetta a continue verifiche e revisioni sulla base dell’evoluzione dei saperi, delle sensibilità e delle conoscenze, delle trasformazioni sociali e delle innovazioni tecnologiche.
Il concetto di accessibilità relazionale, in particolare, si riferisce alla capacità di stabilire e mantenere rapporti interpersonali efficaci, inclusivi e rispettosi, tenendo conto delle differenze culturali, sociali ed emotive tra le persone. In altre parole, non riguarda solo l’accesso fisico a un luogo o servizio, ma anche l’accesso alle relazioni sociali e comunicative in modo che tutti possano partecipare pienamente alla vita sociale e professionale, senza barriere emotive, psicologiche o culturali.
In ambito sanitario, ad esempio, l’accessibilità relazionale implica che i professionisti, come medici, psicologi, insegnanti o assistenti sociali, siano in grado di instaurare una comunicazione rispettosa e sensibile alle diverse esperienze, storie di vita e background culturali dei loro interlocutori. Non è sufficiente che una persona possa fisicamente accedere a un luogo o a un servizio: è altrettanto importante che possa interagire con gli altri in modo che i suoi bisogni e desideri siano compresi e rispettati.
In un più generale ambito sociale, riguarda i modi attraverso i quali parliamo con e delle persone disabili, investendo quindi le condizioni di possibilità affinché la voce delle persone sia ascoltata e non oscurata da posture relazionali disabilitanti (infantilizzazione, pietismo, assistenzialismo), costruite dentro un ordine sociale gerarchico.
In generale, ragionare in termini di accessibilità relazionale significa superare quelle barriere relazionali e comunicative che possono impedire una partecipazione piena e paritaria, promuovendo la creazione di un ambiente sociale che favorisca l’inclusione di tutti.
L’accessibilità relazionale riguarda quindi gli spazi sociali. Oggi si parla tanto di accessibilità, ma sembra grande il rischio che diventi una nuova parola passepartout nel mainstream operativo, senza che ci sia stata prima una problematizzazione a tutto tondo. Nel momento in cui l’accessibilità si diffonde come input legislativo si corre, inoltre, il rischio che la sua burocratizzazione possa coprire i paradigmi relazionali sottesi, lasciando di fatto invariata la situazione preesistente.
Non si può non considerare che il concetto di accessibilità nasce dentro una cornice storica, sociale e culturale normalizzante che veicola contenuti e rappresentazioni, senza mettere in discussione le premesse da cui parte e che rischia di rimanere tale e quale nonostante le leggi oggi comincino a dire cose nuove. L’abilismo, termine mutuato dall’inglese ableism, permea ancora le rappresentazioni della disabilità, dal momento che è prassi comune categorizzare un insieme di persone in base al livello di abilità raggiunto in relazione a standard costruiti socialmente e dentro un’organizzazione spazio-temporale determinata culturalmente.
Nelle pratiche quotidiane continuiamo a vivere dentro «impliciti educativi» (Medeghini et al. 2013) della ragione riabilitativa, in pratiche discorsive che galleggiano in concetti di abilismo e in una percezione di neutralità dei contesti. È qualcosa di incorporato nell’ordinarietà dei sistemi simbolici che veicolano le nostre azioni sociali, che opera nei contesti formativi, professionali e relazionali, e che riflette un immaginario di lunga durata fondato sulla «violenza simbolica» dell’inferiorizzazione dell’infermo come dissimulazione dei rapporti di forza in corso e conseguente biologicizzazione del sociale, secondo l’analisi dei processi storici che ne fa Matteo Schianchi (Schianchi 2019). Ma è anche qualcosa di agito e quindi di agibile, modificabile.
In un momento storico in cui si ragiona di decostruzione antiabilista (Maltese, Fazliu 2023), sembra opportuno mostrare la natura storica di questo sfondo naturalizzato dell’esistenza, problematizzando la disabilità nella sua dimensione relazionale e storico-culturale, costrutto derivato da generi naturali legati alla dimensione del deficit e della menomazione, un’entità descritta per antitesi alla norma standardizzata e attraverso un’epistemologia prevalentemente medico-individuale, anche se sostanziata da una visione bio-psico-sociale.
Di qui appare sempre più chiara la necessità di una cultura, anche istituzionale, che sia in grado di considerare la salute come un «costrutto culturale (dipende da ciò che dà valore alla vita delle persone) da generare socialmente (attraverso il coinvolgimento degli attori sociali)» (Consoloni, Quaranta 2021: 126). Negrogno e Saraceno (2024) si interrogano sul fatto che non si è stati in grado di costruire una teoria della clinica antistituzionale post manicomiale capace di individuare i paradigmi corporei e relazionali degli interventi sociali e riabilitativi: «C’è da chiedersi – scrivono – se la difficoltà […] non dipenda dal fatto che non esiste una terapia di qualcosa che non è una malattia». Pertanto, pensare di promuovere spazi di riflessività istituzionale, momenti di auto-osservazione delle pratiche corporee in atto, potrebbe invece evidenziare la natura culturale di queste pratiche e il margine di operatività pratico-riflessiva che avrebbe una supervisione sistematica delle dimensioni culturali agenti in grado di aprire le contraddizioni del linguaggio, per far emergere la non naturalità di una classificazione e condurla sul terreno del confronto politico. In questo senso la ripoliticizzazione della cura potrebbe diventare «un complesso atto bio-psico-sociopolitico» (Saraceno 2022). Ripoliticizzare la disabilità, socializzarne la costruzione si troverebbe quindi ad essere una forma di riattivazione di senso e operatività, moltiplicando le possibili direzioni esistenziali dei corpi, oltre gli immaginari abilisti. «La partecipazione dei pazienti (ma anche degli operatori) nella produzione del senso delle loro vicende emerge allora come il terreno per comprendere quali risorse attivare per la realizzazione della trasformazione dell’esperienza» (Quaranta, Ricca 2012: 21) e leggere la vulnerabilità come un fatto sociale, generato socialmente e da accettare e responsabilizzare in un’ottica collettiva.
Ma cosa si intende veramente quando le persone parlano di accesso? Qualche discorso e qualche azione pratica sono necessari per cominciare a riflettere su questo terreno. Di qui la necessità di un lavoro preliminare di mappatura delle precondizioni e delle basi culturali dell’accessibilità relazionale che abbiamo iniziato con Matteo Schianchi, che impegna tutti e tutte, poiché ognuno partecipa al processo di accessibilità.
Il gruppo di lavoro dell’Istituzione Gian Franco Minguzzi
Gli incontri del gruppo di lavoro[1] e le interviste fatte sono stati occasione per interrogare questo sistema di rappresentazioni, cercando di orientarci sul significato delle nostre interrelazioni nello spazio sociale, che è appunto uno spazio relazionale.
Matteo Schianchi ha esordito ricordando che, sul tema dell’accessibilità relazionale, ci stiamo muovendo come se fossimo con i piedi sopra una distesa di uova: le verità sono scivolose, bene quindi attivare dei confronti, perché le relazioni o sono o non sono!
In sintesi quanto ci ha illustrato Schianchi.
La disabilità è relazione sociale già nel momento in cui parliamo, quando mettiamo in connessione le cose. Non far entrare in un luogo una persona per le barriere architettoniche vuol dire interrompere una relazione. Ma in circostanze più complesse la situazione si complica, diventa un dentro/fuori: la relazione deve reinventarsi e le persone devono trovare delle modalità alternative di relazione, di interrelazione, di espressione di sé. Perché è facile dire che la relazione si blocca se manca una rampa, lì c’è qualcosa di evidente che impedisce l’avvio di una relazione. Ma questo deve valere anche di fronte a disabilità più complesse. Si tratta di capire anche i contesti in cui le relazioni passano attraverso un sistema di rappresentazioni di sé e del soddisfacimento di alcuni bisogni, ma che non si esauriscono in essi.
È in gioco il tema della relazione umana profonda:
- il bisogno c’è, ma le persone non possono essere ridotte solo ai bisogni e la loro dimensione relazionale non può essere ridotta solo alla risposta al bisogno, altrimenti le relazioni si costruiscono esclusivamente sul bisogno, ma noi non siamo i nostri bisogni
- come le relazioni diventano significative al di fuori dei bisogni?
Non si può collegare la relazione alla soddisfazione dei bisogni, tutto il quadro concettuale, i documenti internazionali, gli strumenti istituzionali non hanno senso se le persone non vivono delle relazioni autentiche. Senza dover necessariamente definire cosa sia l’accessibilità relazionale, abbiamo la necessità di farci interrogare da questa dimensione relazionale: non la si può procrastinare al bisogno, né considerarla strumentale al suo soddisfacimento. La relazione è la cifra stessa dello stare al mondo, lo diceva Aristotele che siamo animali sociali. E se questa cosa è vera, ci impegna e ci coinvolge come rappresentanti in prima persona.
Allora forse è il caso di ribaltare la questione e cercare di capire quali sono le relazioni che si mettono in gioco nei nostri servizi, nelle nostre associazioni, quando le situazioni diventano complesse, perché lì la cura è già istituita, quindi anche la relazione si muove di conseguenza.
Due correnti di pensiero, conclude Schianchi, si sono scontrate sul fronte della relazione: le filosofe del care e i disability studies. Per le prime il tema della cura è decisivo ed è legato al genere, alla privatizzazione del sociale e sociologicamente a classi sociali in ricerca di ascesa. Sostengono che la cura non è accessoria, ma fondante delle società, quindi sono interessate alle forme di dominio e sopruso che si fanno non solo a danno dei disabili, ma anche dei curanti. Per i disability studies invece è determinante il tema dell’autodeterminazione, secondo l’art. 19 della Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità. Per questo dietro la cura c’è sempre uno sguardo sospettoso, una violenza, un dominio sui disabili.
Bruna Zani afferma che la questione deve inserirsi nel tema più generale della relazione con l’altro, quindi sì – come dice Schianchi – bisogna andare oltre il bisogno. È uno sforzo, un compito a livello relazionale. Ma nessuno ce lo insegna, questo è un fatto anche di socializzazione. O forse ci insegnano a muoverci in un certo modo e allora dobbiamo coinvolgere la comunità, al di là della frammentazione e della ricchezza delle tante associazioni, promuovere educazione e formazione. E forse serve un coordinamento che metta insieme tutti questi pezzi e apra un tavolo di confronto politico sul territorio.
Il confronto nel gruppo ha dato spazio a diverse visioni. Di seguito i principali elementi emersi che possono costituire la base di una mappatura del campo dell’accessibilità relazionale a partire dalle pratiche quotidiane e dal riconoscimento della voce delle persone dirette interessate. Come ha sottolineato Antonella Lazzari, la varietà degli argomenti trattati fa capire perché il tema dell’accessibilità relazionale fatichi a definirsi: la relazione col curante; la comunicazione; il nostro essere intrisi di rappresentazioni e pregiudizi; l’esigenza di non aspettare che gli altri vengano, ma di muoversi in prima persona. Ma aggiunge anche il tema della continuità tra vite con e senza disabilità: come faccio ad avere una relazione con una persona disabile se non considero che anch’io potrò divenire disabile? Perché alla fine se non la tocchi per mano, non ti interessa.
I temi principali emersi
1) Accessibilità
È il tema che tiene insieme accessibilità fisica, accessibilità comunicativa, accessibilità relazionale. In particolare, l’accessibilità relazionale ha a che fare con la percezione, è un atto di percezione e in quanto tale ha la capacità di organizzare relazioni socio-politiche in spazi pubblici. È il tema del come le persone si rapportano fra di loro e in relazione alle proprie unicità e diversità.
Ha a che fare con lo spazio, con il tempo, con corpi in relazione. A volte l’accesso si presenta come una domanda, altre volte come una risposta e altre volte ancora non si presenta affatto. Inoltre, alcune persone devono lottare per l’accesso, mentre altre sono scocciate dal doverlo pretendere, o addirittura irritate da questa lotta. Ci sono situazioni in cui l’accesso può essere messo in discussione, altre situazioni dove questo non avviene.
Situazioni di vita quotidiana, emerse dal confronto e dalle interviste, restituiscono la forma vissuta di questi discorsi. L’inaccessibilità fisica diventa, per esempio, un limite relazionale, oltre che l’impossibilità per una donna di entrare in un negozio che le piace. Silvia Stagni si lamenta, raccontando delle innumerevoli volte in cui non è potuta entrare in un negozio a Bologna: “io non posso entrare, apartheid, come ebrei in tempo di guerra!”, sottolineando inoltre come ci sia ancora gente che “non si fa vedere, perché non vuole uscire di casa”.
A tale proposito si segnala il Progetto AccessiBO: una mappa dell’accessibilità degli edifici aperti al pubblico (negozi, ristoranti, circoli culturali…). Si tratta di un progetto, nato nel 2022, promosso da alcune associazioni locali come Sistemabile, Rete per l’autonomia APS e UILDM Bologna, per supportare l’applicazione delle «Linee Guida per la visitabilità degli edifici aperti al pubblico» del Comune di Bologna (del 2021). Un documento non solo orientativo, ma che pone obblighi vincolanti agli adeguamenti richiesti dal nuovo Regolamento Edilizio del Comune, (sarebbe dovuto entrare in vigore a settembre 2023, qui nella versione in fieri aggiornata del 2024). Il tutto si inscrive nella progettazione regionale dei cosiddetti PEBA, i Piani di eliminazione delle barriere architettoniche (in via di approvazione del primo stralcio a febbraio 2025) e in linea con l’ «accomodamento ragionevole» della Convenzione ONU.
AccessiBO ha attraversato la città per rilevarne l’accessibilità attraverso un gruppo di volontari formati ad una metodologia co-progettata con l’Università Federico II di Napoli. Una vera e propria cartina (disponibile e aggiornabile) che ha misurato gli ingressi dei locali, evidenziando la presenza di rampe, porte, gradini. A questa si accompagna un Vademecum realizzato dalla rete di associazioni promotrici delle Linee Guida che indica le tipologie di adattamento secondo un ordine di priorità e fattibilità e inoltre dà chiare indicazioni per evitare pericolose improvvisazioni.
Irene Frascari ci segnala anche il Progetto Rampe per favorire l’accessibilità degli ingressi dei luoghi aperti al pubblico della UILDM: sembra che alcuni meccanismi burocratici di inclusione possano effettivamente servire a normalizzare la continua esclusione delle persone disabili.
Che competenze percettive crea la prossemica di una città che non si accorge di avere frontiere di incomunicabilità e che aspetta che siano le persone escluse dalla fruizione piena degli spazi a rivendicare l’abbattimento di barriere fisiche e cognitive? Infine, che «comunità competente» (Zani 2015), anche in termini di capacitazione riflessiva e autoriflessiva, può creare una città se non si impegna in azioni e sperimentazioni con gli attori sociali per orientare l’agire pubblico dentro un disegno comune?
Ciò significa che “l’accesso” è un modo per dare vita alla coscienza, una forma di azione sociale orientata e un modo di relazionarsi con persone e luoghi. L’accesso, in questo senso, è una relazione interpretativa tra corpi. In questa concezione, possiamo esplorare come le persone si interrogano e agiscono all’interno dello spazio sociale e scoprire come siamo coinvolti nell’attività di rendere le persone e i luoghi significativi l’uno per l’altro.
Il Design for all deve diventare punto di riferimento di qualsiasi azione politica e istituzionale.
2) Semplificazione eccessiva della disabilità e sua centralità nella rappresentazione della persona
La scarsa relazione con la dimensione evolutiva della disabilità porta ad una cristallizzazione del tempo di vita della persona disabile e ad una conseguente infantilizzazione nella rappresentazione degli individui e nel relazionarsi a loro.
Inoltre, a livello istituzionale, il passaggio da “minore” a “ disabile adulto” e poi a “disabile anziano” si scontra con la divisione in compartimenti stagni dei servizi di riferimento.
Tale postura, nel definire la disabilità e nel rapportarsi ad essa, induce talvolta le persone disabili a nascondere la propria difficoltà e laddove manca l’accettazione, il disabile si pone già nella posizione di dover rivendicare comunque qualcosa.
Di fronte a queste difficoltà c’è quindi spesso da parte delle persone la tendenza a negoziare, ove possibile, la visibilità/invisibilità della propria disabilità per limitare le barriere relazionali che possono frapporsi e facilitare invece i rapporti sociali.
Significativa questa scena vissuta tratta dalla letteratura (Hofmann et al. 2020) dove la studiosa Megan Hofmann, che ha una disabilità, racconta del suo rapporto conflittuale con i mezzi pubblici.
A volte il bastone è necessario per aiutare il suo equilibrio o per essere trasformato in uno sgabello con una gamba sola, ma spesso è uno strumento per raccontare agli altri quando è affaticata e ha bisogno di camminare lentamente o di riposare. Ma rendere visibile la sua disabilità a volte può creare nuove barriere. Ad esempio, molti autobus pubblici abbassano una rampa per le persone che il conducente ritiene non possano fare un passo. Spesso, l’autobus emette un suono di avviso forte e acuto. Questo può far svenire Hofmann, quindi “quando mi avvicino all’autobus devo fare questa goffa danza di nascondere il mio bastone all’autista dell’autobus che si avvicina che potrebbe gentilmente presumere che non posso fare il passo, ma anche rivelarlo chiaramente agli altri passeggeri che potrebbe aver bisogno di darmi un posto accessibile. In questi momenti, Hofmann deve rendere la sua disabilità visibile e invisibile, percepita e ignorata.
Sempre Silvia ci racconta della sua attenzione costante all’immagine che gli altri hanno di lei: “Io comunque non riesco ad abbandonare l’idea che chi mi vede […] poi magari se si mette a parlare, dopo […] Mia cugina, che è anche una mia amica, mia sorella, le persone che sono un po’ più amiche, che erano amiche anche prima, sono quasi certa che vedano Silvia e…però chi mi conosce come fa a vedere…comunque passa la disabilità. E questo non so quanto durerà, se mai finirà. È difficile che uno riesca ad andare oltre”. Ed emerge dalle sue parole anche la difficoltà di trovare assistenti che non si pongano con lei come badanti e non la trattino da “scema” o da “anziana”.
Ma c’è anche da dire che ci sono delle situazioni in cui si potrebbe partire con un atteggiamento relazionale più tranquillo, perché non è detto che veramente le persone, dall’altra parte, stiano guardando lo stigma.
Come sottolinea Barbara Bertoni, anche la sessualità mancata è una relazione in qualche modo negata, infantilizzata.
3) Relazioni tra esseri umani e tecnologia, accessibilità sensoriale
La ricerca sull’accessibilità spesso esamina le esperienze delle persone disabili attraverso osservazioni, interviste, attività di progettazione interattiva e studi sugli utenti, ma non coglie il rapporto completo tra disabilità e tecnologia. Da una parte c’è una prossimità con la tecnologia (oggetti che diventano soggetti) di cui tener conto, dall’altra il rischio che l’accesso si riduca alla sola tecnologia.
Lina Di Ridolfo considera l’accessibilità relazionale proprio in questi termini: “È la capacità…la possibilità di metterci in contatto con gli altri anche attraverso gli strumenti informatici. L’accessibilità è sia verbale, sia anche informatica, sia emotiva…ci scambiamo le emozioni, facciamo dei percorsi proprio emotivi anche. Accessibilità relazionale è la possibilità di mettersi in contatto, in relazione senza sovrastrutture, senza barriere.”
Silvia ci parla della sua relazione con la carrozzina alla quale ha dato un nome, “colibrì”, di come ne abbia più di una, a spinta manuale, elettrica, di come le sia essenziale per fare tutto, e di come la sua presenza, eloquente, intralci le relazioni quotidiane.
Nonostante la Legge Stanca, sul fronte della cecità, manca completamente un’attenzione inclusiva affinché i documenti che circolano, i siti web, ecc. siano accessibili. Bene si sta facendo sul fronte museale, anche a Bologna, ma si sta molto indietro. Quanti siti delle nostre associazioni sono accessibili ai ciechi? Quanti eventi che creiamo sono progettati con la presenza di interpreti LIS?
4) Diagnosi e scuola
Rispetto alla disabilità molte cose cambiano se si tratta di un’insorgenza tardiva o precoce: per alcuni c’è un prima e un dopo, per altri c’è una diagnosi data ai genitori o ai familiari.
Antonella Misuraca ci parla di come essere disabili spesso implichi una diagnosi data da un’autorità medica e il conseguente problema dell’accettazione. Quale accesso al significato per le persone e per i familiari? È questo un tema sentito da molte associazioni che promuovono una formazione adeguata dei genitori alla diagnosi dei propri figli che deve poi radicarsi in una formazione nelle scuole e in tutta la rete sociale. Non si è preparati come genitori, la scuola non è preparata e spesso scatta una modalità relazionale con le persone disabili che non aiuta, seppure spesso mossa dalle migliori intenzioni. E racconta scene ordinarie con figli alla scuola elementare, quando ad esempio le maestre dicono – con naturalezza davanti al bambino, perchè tanto non capisce ai loro occhi – che avrebbero chiesto il massimo delle ore della presenza a scuola, per non lasciarlo mai solo. Poi cosa succede? Mangiano, finiscono di mangiare, magari il bambino è un po’ più lento perché ha una disabilità intellettiva quindi non è velocissimo nel mangiare. E allora dopo la dada per essere buona si siede vicino a lui, dopo se lo porta in cucina a mettere i piatti a posto, dopo viene la mamma e le si dice, come è successo anche a lei: “sua figlia è eccezionale, mi ha aiutata a mettere a posti i piatti nella lavastoviglie.” E lei dice: “Ma gli altri bambini dov’erano?”. Ovviamente a giocare in giardino. E sentirsi quindi rispondere: “Ma lei è bravissima, è stata con me tutto il tempo, ha messo tutti i bicchieri a posto, li sa fare, è veramente brava!”. E dopo alla fine tocca fare il regalo di Pasqua alla dada perché, dal suo punto di vista, si è sentita buona. Lei le ha dedicato tempo, le è stata dietro, con la gioia dell’insegnante che aveva trovato una collaboratrice.
Sempre sul fronte scolastico Barbara Bertoni racconta di come la figlia uscisse da scuola sempre sola:
Prima tutta la classe, poi Elisabetta con l’educatrice da sola. Ecco lì ho detto: “scusate, ma non c’è nessuna integrazione.” Era in seconda media. Possibile che non ci sia una persona della classe che prenda per mano Elisabetta, che la porti con sé, che l’aiuti che rimanga all’interno del gruppo? Al che ho fatto un incontro con l’insegnante di sostegno e praticamente lei era quasi sempre o fuori dalla classe o in quest’aula dove ci sono cucito e altre cose. Io ho fatto una sfuriata che non…ho detto: “adesso mia figlia la ritiro dalla scuola, la tengo a casa con un’educatrice, facciamo lezioni private, tanto è uguale.” Ho rivoluzionato tutta la scuola […] non so se hanno ricominciato a fare come prima… […] mi diceva questa insegnante, a cui Elisabetta è sempre stata legata: “ma io le voglio bene a Elisabetta, io lo faccio per il suo bene!” Ecco questa è stata la cosa più disarmante perché come fanno certi nonni, certi genitori: “io per il suo bene la tengo chiusa.” È proprio tutto il contrario. Io non mi vergogno di lei assolutamente. Mi vergogno dell’ignoranza che c’è in giro. Questi ragazzi devono stare ancora di più in mezzo agli altri perché ci si deve rendere conto di quali sono le loro dinamiche.
Se le agenzie educative (servizi, scuole, ecc.) non si pongono queste questioni, non ci può essere cambiamento: questo è un tema culturale su cui servizi e associazioni non parlano perché presi dalle urgenze dei bisogni, ma non ci sono solo i bisogni e non è sempre vero che le persone con disabilità complessa non capiscono le forme della relazione.
5) Connessioni e relazioni
Necessità di costruire un’alleanza positiva con la disabilità e progressività nel farsi accettare come disabili, muovendo piccoli passi, quasi scegliendo di accompagnare gli altri in un percorso di conoscenza/accettazione.
Lina di Ridolfo pone l’accento sul fatto che è bene potenziare le relazioni di coloro che girano intorno al disabile, ma che occorre curare anche le relazioni che il disabile deve attuare per muoversi verso gli altri: come possiamo noi disabili andare verso e non aspettarci che gli altri ci vengano incontro? Gli altri si imbarazzano, non sanno che parole usare (l’imbarazzo di dire “guarda qua” ad un cieco per esempio). Quindi anche noi disabili ci dobbiamo rafforzare, andare verso l’altro, dobbiamo fare la nostra parte, l’inclusione non può venire per legge.
Ed è sempre Lina che racconta dei sodalizi a scuola nel collegio docenti:
Tu devi dire: “guarda, ho bisogno di questo, me lo fai?” Bisogna diventare…non dico umili […] questa collaborazione, come con qualsiasi altra persona, è seria e onesta se ognuno fa la sua parte nella maniera più disincantata possibile. Ma se arriviamo con la prosopopea, che hai diritto di questo, diritto di quello…la gente scappa. Oggi più di prima…
E a volte la relazione nell’assistenza deve anche essere pensata in senso intransitivo, come ci dice il caso di Silvia col suo progetto di vita autonoma, purtroppo fallito dopo due anni di buona collaborazione. Silvia ha una casa grande, per non trovarsi una badante ha messo un annuncio offrendo ospitalità (in una Bologna dove mancano sempre più alloggi a buon mercato per gli studenti!) in cambio di cura della sua persona. Un’assistenza non transitiva (“io assisto te”), ma intransitiva (“stiamo insieme”), in cui la persona disabile assiste il bisogno di abitazione di una studentessa e quest’ultima assiste il bisogno di accudimento.
C’è poi tutto il tema delle difficoltà relazionali tra disabili e curanti. Barbara Bertoni riporta la sua esperienza con la figlia diciannovenne e con disabilità psico-motoria e le visite sanitarie che diventano, ogni volta, momenti molto complicati: le istituzioni non potrebbero trovare una specie di protocollo per garantire la presenza delle persone senza creare condizioni relazionali che acuiscono il disagio, magari semplicemente organizzando le visite sempre nello stesso luogo e con lo stesso medico?
E come dice Rita Serra stride l’espressione “gli operatori lavorano sulle persone”: uno se li immagina proprio sopra le persone. Di qui la necessità di trovare qualcuno che abbia anche una visione di chi e come si fa l’assistente personale.
E quali sono le relazioni in ambito lavorativo? Un giovane, un adulto mandato a lavorare in un certo luogo è formato a stare in quel luogo dal punto di vista relazionale? Ma ancora di più l’ambiente di lavoro, le persone sono attrezzate per relazionarsi con la persona disabile o sono solo “costrette” umanitariamente a sopportare una presenza diversa perché così va fatto, lo dice la Legge 68/99? Che mansioni vengono date a queste persone? In che modo il contesto lavorativo può diventare realmente inclusivo e non semplicemente vincolato a integrare un disabile? La prospettiva del Disability Management (che cerca di dare risposte a queste domande) fatica a introdursi nel mondo del lavoro, anche perché molto spesso enti e aziende preferiscono pagare la penale per non avere adempiuto alla percentuale obbligatoria per legge di assunzioni delle categorie protette.
Roberto Alvisi, dalla sua esperienza, nota che la difficoltà sta nella presa in carico, che il problema del rapporto con la complessità sta per esempio nell’assenza di assistenza domiciliare integrata, dove si avvita il nodo tra gli specialisti di medicina generale, la sanità territoriale e dove gli incontri, le relazioni sono mediati dall’affetto o dal conflitto.
C’è poi, come sottolinea Gabriele Gamberi, la mancanza di una cultura ICF e la tendenza degli operatori e degli amministrativi dei servizi a ragionare per settori.
Nei luoghi della vita civile succede poi spesso che se un genitore entra con un bambino disabile, molto spesso l’esercente non lo fa pagare o gli regala un cioccolatino: “Ci sono dieci bambini nel bar, solo a lui danno il cioccolatino!” Ma perchè? Si chiede Antonella che quindi insiste per pagare: “non lo dobbiamo proteggere più di tanto. Lo dobbiamo…questo è il concetto, lo dobbiamo aiutare. E non basta”.
Volendo scrivere una ricetta, quali sono gli ingredienti per favorire questa accessibilità relazionale allora? Barbara risponde: “Una casa, un posto dove so che lei si trova bene perché trova le persone giuste e l’ambiente giusto. Un posto che è la sua vera casa, dove lei sa che lì sanno come è fatta lei e come ci si può rapportare a lei”.
Anche le associazioni devono essere meno autoreferenziali e questo fiorire di associazioni per patologie è troppo: i genitori vanno aiutati, ma anche un po’ stoppati: “basta dopo di noi, ma finalmente senza di voi”, come dice Danilo Rasia. Ed è bene non pensare il dopo di noi in termini luttuosi di mancanza.
6) comunicazione, narrazioni e formazione
Le narrazioni dimostrano che le relazioni sia per i disabili che per i non disabili coinvolti possono essere potenti e positive. Federico Mascagni ricorda come il neoliberismo investe sempre più in questi ambiti anche, per esempio, nella comunicazione commerciale che usa e strumentalizza il corpo disabile. E la politica, in mancanza di un dibattito preliminare, se ne appropria. Manca inoltre l’ascolto del momento delirante e del significato che quel discorso esprime.
La formazione è fondamentale, una formazione trasversale e raccordata da incentivare. C’è troppo fai da te che rischia di creare debolezze. Poi bisogna dare spazio all’esperienza diretta delle persone con disabilità in modo che mettano a punto la rielaborazione delle proprie azioni. Ma una formazione congiunta, tra associazioni, amministrazioni… Questa l’opinione di Giovanna De Pasquale.
Una formazione che sia anche linguistica, dal genitore all’insegnante, dal neuropsichiatra all’operatore, fino a chi si occupa di comunicazione. C’è un eccessivo uso di determinati termini, un abuso di altri che ci porta poi automaticamente a dei fraintendimenti: la frase “la sorella l’ha fatto uscire” non esiste. Perché se due sono normodotati, lei non dice: “quello ha portato quell’altro.”
Un racconto autobiografico tratto dal blog di Valeria Alpi, ripreso su Una certa idea di…, sintetizza in maniera efficace quanto sia importante il ruolo trasformativo delle narrazioni.
Qualche giorno fa, per la prima volta dall’incidente, ho deciso di uscire di casa con le bermuda. Ed è qui che è successa la cosa buffa. Ovviamente la gente mi guardava la gamba, io per la verità sono abituata a essere guardata per strada perché la gente non riesce a capire che tipo di disabilità io abbia: mi identificano come una disabile ma non sanno cosa mi è capitato e quindi osservano con attenzione per farsi un’idea. Ad ogni modo, anche quando pensano che ho avuto un incidente e che non sono nata disabile, si fanno comunque l’idea che l’incidente sia irreversibile e che ormai io sia rimasta disabile a vita. Ma è qua che interviene la gamba!! Perché con la sua cicatrice “ancora fresca” sembra che io abbia subito un incidente anche particolarmente brutto, ma visto che cammino, esco, sfoggio la ferita, evidentemente sto guarendo e nel giro di qualche mese tornerò come prima.
In pratica ora sono “una di loro”! Una normodotata che ha avuto un piccolo arresto di qualche mese nella vita da normodotata, ma che si sta riabilitando e presto tornerà come prima, cioè normodotata.
La cosa ovviamente mi fa super ridere, perché quando la gamba guarirà del tutto io tornerò come prima, cioè disabile dalla nascita! Ma questa specie di limbo in cui mi trovo ora, un limbo creato dalle idee che si fanno le persone, mi fa provare per la prima volta nella mia vita cosa significa essere normodotata, “una di loro”.
Dato che sono una di loro non mi trattano più come se io non capissi bene l’italiano (perché si sa, i disabili sono sempre anche un po’ tonti, in qualche modo ci “sono rimasti” anche con la testa).
Dato che sono una di loro mi aiutano, e questa cosa a me fa ridere ma ovviamente se ci pensate è paradossale: mentre quando sono disabile mi “schifano” anche un po’, e non mi chiedono mai se ho bisogno di aiuto (questo almeno in Italia, all’estero è un altro mondo), quando sono una normodotata incidentata mi aiutano perché in fin dei conti ho una difficoltà momentanea, che può capitare anche a loro (mentre la disabilità col cavolo che può capitare anche a loro, scongiuri e controscongiuri e corni rossi e toccatine di parti basse).
Dato che sono una di loro sono coraggiosa, perché esco comunque di casa anche se non sono guarita, perché provo a riprendere le redini della mia vita, mentre quando sono disabile non sono coraggiosa anche se vado in giro da sola, anzi sono una sciagurata (non potevi stare a casa tua? Guarda, sei andata in giro e sei pure caduta!).
Dato che sono una di loro, se esco con gli amici è normale, in fin dei conti è quello che facevo prima dell’incidente e presto tornerò anche a ballare con loro, mentre quando sono disabile se esco con gli amici non sono mai veri amici ma gente che ha il cuore d’oro, l’animo pietoso e quindi, come favore o come volontariato, accettano di portare fuori anche me.
Dato che sono una di loro, nei negozi le commesse o i commessi mi trattano con rispetto, mentre quando sono disabile spesso hanno la faccia del “sì questa maglia è bella ma su una disabile insomma” o del “ma cosa te ne fai della borsa firmata scusa?”.
Dato che sono una di loro se mi lamento dell’ascensore mancante ho perfettamente ragione, mentre quando sono disabile sono la solita disabile brontolona che pretende che il mondo sia fatto a sua misura.
7) Mancanza di dati
Rispetto ai dati, esistono disabilità che non vengono diagnosticate, per esempio alcol e droga. Sempre rispetto ai dati, ci sono troppe fonti di raccolta che non comunicano. Manca, a detta di Carlo Mestitz, una mappatura dei cittadini disabili sul territorio metropolitano e manca la condivisione dei dati che ogni ente o associazione possiede.
L’accessibilità relazionale alla luce della Legge 227/21
Come si è visto, l’organizzazione degli spazi relazionali riflette valori di ordine morale, sociale e politico, cristallizzando processi dinamici quali sono gli sguardi, le definizioni e le categorie.
L’arrivo della Legge 227/21 – Delega al Governo in materia di disabilità, nei suoi intenti programmatici insiti nella Convenzione ONU a cui si ispira, sembra muoversi su un terreno che in parte potrebbe facilitare l’emersione della dimensione relazionale della disabilità, sottraendola ad una pura logica medico-individuale basata sulla patologia o ad una sola dimensione sociale. Stretti tra un’ontologia biomedica e un’ontologia socio-economicista, il modello medico e il modello sociale non giungono a mettere in completa discussione il concetto di corporeità, lasciando il corpo all’interno di una defnizione bio-psico-sociale, negandogli il ruolo che gli spetta nella formulazione di esperienze.
Nel testo Il soggiorno obbligato. La disabilità fra dispositivi di incapacitazione e strategie di emancipazione (Il Mulino, 2024), a cura di Ciro Tarantino, due saggi affrontano con chiarezza questi temi.
Natascia Curto, nel capitolo “welfare multicentrico e di prossimità” si pone nella prospettiva ecosistemica ampia propria di Andrea Canevaro (1997).
Le istituzioni, i servizi, gli spazi sociali, di fatto ratificano una marginalizzazione delle persone già avvenuta. Due sono i meccanismi agenti: in primo luogo l’inaccessibilità dei contesti che mette in atto una propensione ad esperienze vicariate in luoghi “speciali”, dove i framework relazionali e culturali sono circoscritti. In questi ambiti, disabilitanti, l’esistenza della persona con disabilità è riconfigurata dentro un orizzonte di senso legato quasi esclusivamente alla menomazione, con la conseguente riduzione delle aspettative e l’accettazione del contesto sociale. La stessa partecipazione, in questi luoghi speciali, modella le reti informali di relazioni (solo tra disabili o nel rapporto operatore/utente) e determina il modo depersonalizzante in cui gli altri vedono i disabili (“il gruppo dei disabili”).
Il secondo meccanismo risponde per sottrazione a questa inaccessibilità dei contesti, nel momento in cui lo spazio di partecipazione sociale, svuotato, non viene sostituito da uno spazio “speciale”, per cui l’unica alternativa possibile sembra davvero essere quella istituzionale.
Per invertire questi processi Curto propone, a livello micro, di modificare le condizioni di esperienza delle persone disabili, mentre, a livello macro, un ripensamento del welfare. Il contesto non è il luogo dell’intervento, ma l’oggetto dell’intervento stesso ed è «attorno alle direttrici dell’accesso che i servizi sono chiamati ad aggregarsi e a spendere l’alta professionalizzazione di cui sono capaci» (p. 489).
L’accessibilità dei contesti, come si diceva, non è solo quella architettonica, ma è anche quella legata alle barriere simboliche (cioè alle rappresentazioni incorporate della disabilità) e quella socio-relazionale intesa come: «il sistema di funzionamenti attesi che i contesti sociali danno per scontati (dal tempo di attenzione allo stare fermi, dall’uso di un linguaggio codificato ufficiale alla capacità di generalizzare)» (ibidem). Di qui, conclude Curto, la necessità di servizi relazionali intesi non come accoglienza della diversità, ma come agenti mediatori nella diversificazione della norma.
Cecilia Marchisio, nel capitolo “Il progetto personalizzato e partecipato”, fulcro della Riforma della disabilità in atto, sottolinea l’importanza di costruire infrastrutture intenzionali volte a favorire processi di de-istituzionalizzazione e invertire i meccanismi di incapacitazione impliciti e strutturali, intesi come framework dominanti a livello transdisciplinare (la persona con disabilità è la persona che “non”).
Progettare questi nuovi spazi relazionali deve però prevedere un riequilibrio del potere definitorio concesso agli specialisti socio-sanitari, che sono abituati ad essere i proprietari delle cornici epistemologiche attraverso le quali distinguiamo il mondo in abili/disabili.
Per ricostruire traiettorie esistenziali e relazionali, la progettazione non può che essere partecipata ed emancipatoria (dove l’emancipazione è al tempo stesso mezzo e fine) e va intesa come dispositivo capacitante per costruire futuro e capacità di aspirare. Progettare in ottica demedicalizzata e antipaternalistica significa, quindi, ricostruire il senso dei fenomeni, delle esperienze e delle scelte, in modo che la scelta non si configuri come un esito, ma come un processo relazionale.
Fondamentale, per Marchisio, è poi potenziare e riscrivere il capitale retorico oltre le cornici addestrativo-normalizzanti (diagnosi e gravità), muovendosi invece verso la logica dell’espressione di volontà e della realizzazione dei desideri (definire se stessi con le proprie parole). La disabilità, come insegna la Convenzione ONU all’ art 3 comma d, di fatto è «una delle forme della diversità umana».
Il progetto dovrebbe quindi porsi come un mediatore dinamico, che parta dalla preliminare conoscenza dei contesti di vita della persona (e non in primis della persona), valutandone le barriere, l’accessibilità materiale ed immateriale, e la loro modificabilità sostenibile. Dovrebbe basarsi sull’alta professionalità delle figure coinvolte e integrare strumenti psicopedagogici all’assetto organizzativo in ottica dinamica e flessibile.
Francesca Pistone
antropologa,
già collaboratrice dell’Istituzione G. F. Minguzzi
Bibliografia di riferimento
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NOTE:
- Tra il 2022 e il 2023 l’Istituzione G. F. Minguzzi ha attivato un gruppo di lavoro (focus group, incontri laboratoriali e interviste individuali) per ragionare sul tema dell’accessibilità relazionale, avvalendosi della competenza dello storico Matteo Schianchi, ricercatore presso l’Università degli Studi Milano-Bicocca. Hanno partecipato, oltre Bruna Zani, Antonella Lazzari e Francesca Pistone (per l’Istituzione G. F. Minguzzi) diverse figure rappresentative di alcune associazioni di disabili e familiari di Bologna: Marie-Françoise Delatour (Cercare oltre), Barbara Bertoni (Passo Passo), Lina di Ridolfo (Sportello Ciao e Istituto Cavazza), Roberto Alvisi (UILDM) Federico Mascagni (Sogni e bisogni), Rita Serra (AIAS Bologna onlus), Carlo Mestitz (AISM), Giovanna Di Pasquale (CDH), Gabriele Gamberi (Fondazione ASPHI e Osservatorio nazionale Rete centri Ausili), Antonella Misuraca (G.R.D.), Anna Cracolici (Il Ventaglio di Orav), Danilo Rasia, Clotilde Ambrisi (Passo Passo), Irene Frascari (UILDM). ↑
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