Una riflessione a partire dal libro di Elena Cerkvenič “Sono schizofrenica e amo la mia follia”.  Nell’ambito del Festival della Rete Specialmente in biblioteca, dedicato quest’anno al tema dei “Cambiamenti”, abbiamo avuto il piacere di ospitare Elena Cerkvenič, autrice di un importante libro “Sono schizofrenica e amo la mia follia”, in cui ripercorre il suo incontro improvviso e imprevisto in età adulta con la follia.
Fra i molti stimoli proposti da questo memoir, in questa approfondita recensione, si sofferma ad analizzare alcuni temi di grande rilevanza nel dibattito odierno: dal significato di usare il paradigma identity first (vs person first), al ruolo delle persone Esperte in Supporto tra Pari e al loro rapporto (ambivalente) coi servizi di . Vengono sollevate, anche in modo forse volutamente provocatorio, alcune questioni e domande aperte, rivolte a tecnici, professionisti, ma anche a Esperti per esperienza: ci auguriamo che qualcuno voglia entrare in questo dialogo e rispondere a queste sfide.

Il libro di Elena Cerkvenič “Sono schizofrenica e amo la mia follia” (Edito da Meltemi nel 2024) offre importanti stimoli per approfondire alcune delle questioni più importanti che animano il dibattito sulle narrazioni soggettive delle persone con disagio psichico e sul valore del sapere che viene dalla loro esperienza diretta. Tali questioni risultano particolarmente rilevanti nella fase attuale, in cui si discute della formalizzazione del ruolo delle persone Esperte in Supporto tra Pari e vari Servizi di si interrogano su come riconoscere e strutturare la collaborazione di queste figure.

 

“Sono schizofrenica”: la prospettiva identity first entra nel campo della

La prima particolarità che risalta dal libro di Elena è l’utilizzo del paradigma “identity first”, contrapposto a quello “person first” che aveva goduto di una egemonia incontrastata nell’ultimo ventennio di dibattiti presso l’associazionismo di utenti e familiari[1]. Elena dice infatti di sè “sono schizofrenica”, con una formula linguistica che pone la schizofrenia al centro della sua identità, laddove per molti anni nell’associazionismo vicino al Forum e al Servizio di di Trieste, ambito in cui si svolge il percorso di cura di Elena Cerkvenic, si era preferito parlare di persone “che hanno la schizofrenia” o “con la schizofrenia”, per sottolineare l’importanza di una soggettività personale che restasse al di fuori dalla definizione medica del disturbo.

Il paradigma “person first” nel tentativo di contrastare lo stigma e la riduzione dell’individuo alla sua diagnosi, poneva infatti l’accento sulla persona prima della sua condizione medica, la cui natura non veniva questionata dalle rivendicazioni dell’associazionismo, interessato piuttosto a chiedere che altre prospettive si facessero strada nei servizi per garantire l’approfondimento delle azioni riabilitative e socializzanti, se non talvolta di quelle psicologiche, così da poter giungere al pieno inveramento del modello “bio-psico-sociale”. L’intento principale di questo approccio era dunque quello di evitare che i bisogni dell’individuo venissero oscurati dai servizi dietro il solo trattamento medico-farmacologico, e di contrastare lo stigma associato alla o al disagio mentale proponendo, oltre alla considerazione della condizione patologica diagnosticata, l’importanza di tutelare e coltivare tutti gli altri aspetti della personalità individuale, compresi i suoi diritti civili e politici, come quelli alla socialità e all’inclusione abitativa e lavorativa, che il servizio con il suo innervamento nella comunità avrebbe dovuto rendere esigibile.

Negli ultimi anni è invece cresciuto, fino ad ora soprattutto nell’ambito della , l’associazionismo che fa riferimento all’approccio “identity first” (“persona disabile” o “persona schizofrenica”). Esso rivendica la come parte integrante dell’identità di una persona e come base per la costruzione di una cultura e di una comunità sulla base di questa caratteristica. Nonostante questa tendenza nasca come evoluzione del modello sociale della , e sia quindi profondamente informata dall’idea che la è un processo sociale e politico, non risolvibile in caratteristiche del corpo o della psiche individuale (tant’è che talvolta in questo ambito si parla di persone disabilitate, per focalizzare l’attenzione sul processo sociale di disabilitazione), le elaborazioni identity first considerano la condizione di disabilità inscindibile dalla personalità in quanto essa è indistinguibile dalla posizione che la persona occupa nelle relazioni di potere che strutturano la sua vita nella società. Questo approccio comporta un atto di riappropriazione di termini, storicamente associati alla menomazione, che sono stati tradizionalmente usati in modo peggiorativo o come etichette mediche restrittive; in ciò si vede operare con pienezza quello che Ian Hacking ha definito “looping effect”: le complesse retroazioni che si verificano tra le definizioni scientifiche o sociali di “tipi umani” e le persone che vengono categorizzate in base a tali definizioni[2]. Per comprendere il looping effect è utile distinguere tra “tipi umani” (human kinds) e “tipi naturali” (natural kinds). I tipi naturali sono le categorie invarianti su cui si basa la scienza, come gli elementi chimici; i tipi umani, invece, sono le categorie specifiche individuate dalle scienze sociali per raggruppare persone con comportamenti o pratiche simili, come “l’alcolizzato”, “l’eroinomane”, “lo schizofrenico” o “l’autistico”.

La differenza fondamentale è che il riconoscimento di un tipo umano è carico di significazioni morali e valoriali, non è neutrale come la classificazione di un elemento chimico. Inoltre, quando una persona viene riconosciuta o si riconosce in una tipologia umana, questo risignifica la sua vita, sia nel presente che nella rilettura del passato. Il looping effect entra in gioco quando le persone riconosciute in una tipologia umana, assumendo tale identità, la trasformano. Questo avviene perché le persone non sono entità passive che si conformano semplicemente alle categorie, ma agiscono e interagiscono con esse. Le loro esperienze e le loro auto-narrazioni possono modificare la comprensione e la definizione stessa del tipo umano. Se prendiamo l’esempio dell’autismo, la cui definizione medica – fino a qualche decennio fa incontrastata – metteva al centro la triade dei “deficit” per identificarne la diagnosticabilità, oggi vediamo come la ricerca neuroscientifica più avanzata (cioè quella partecipativa) metta al centro le peculiarità sensoriali e sia passata dal pregiudizio di “assenza di empatia” all’approfondimento del “problema della doppia empatia”, come teorizzato da Damian Milton[3].

Le persone disabili (o “disabilitate” o “con disabilità”, a seconda di come preferiscono definirsi) hanno già da lungo tempo affrontato questo dibattito nei loro movimenti: quella parte di movimento che ha adottato il paradigma “identity first”, trasformando un’etichetta potenzialmente stigmatizzante in un punto di partenza per la rivendicazione della propria identità, ha portato una serie di nuove concezioni nel dibattito sui diritti e l’inclusività (per esempio preferendo il concetto di accessibilità – che descrive una caratteristica dei contesti e delle relazioni – a quello di inclusione – che descrive un’azione svolta da chi ha più potere a vantaggio di chi ha meno potere. In primo luogo l’approccio “identity first” considera la disabilità come una fonte di identità collettiva, cultura e storia condivisa: sulla scorta dei , tale identità condivisa diviene centrale strumento di consapevolezza di una oppressione sistemica e di un’ingiustizia politica. Adottare un linguaggio “identity first” è infatti un atto politico che mira a rivendicare diritti e a promuovere la giustizia sociale: contro il rischio di “terapie” correttive imposte e spesso invalidanti, la rivendicazione della propria peculiarità come base dell’identità può portare a una maggiore consapevolezza delle barriere sociali, culturali ed economiche che le persone con disabilità affrontano e a una mobilitazione collettiva per superarle.

Nella condizione storica attuale, in cui il dibattito attorno al concetto di in salute mentale sta mostrando le difficoltà e i rischi che si celano dietro definizioni ancora troppo vaghe, questo genere di approfondimenti risulta centrale: infatti, nonostante il concetto di sia ampiamente accettato nei servizi di salute mentale e nei documenti programmatori delle politiche, esiste una grande variabilità delle pratiche e degli orientamenti che ad esso si richiamano[4]. Questo porta a interpretazioni variabili e a una difficoltà nel tradurre i principi della in azioni concrete, ponendo spesso in una condizione di debolezza le soggettività che mirino ad approfondire la componente psico-sociale dell’azione dei servizi[5]. In questo senso le discussioni sull’ identità, la cultura e la politica (quindi le strategie) svoltesi nell’ambito della Disabilità costituiscono un necessario oggetto di approfondimento nei luoghi di discussione e formazione tra persone Esperte in Supporto tra Pari in salute mentale in quanto consentirebbero di riaprire ciò che ha costituito la forza della riflessione del modello sociale della disabilità: la critica al modello medico e la possibilità di risignificarne le categorie e i rapporti di potere impliciti.

 

La come chiave di lettura dell’esperienza

Il concetto antropologico di , come ben delineato da Matteo Schianchi a partire dalle analisi di Robert F. Murphy, offre una lente potente per comprendere l’esperienza sociale delle persone “disabili”, “disabilitate” o “con disabilità”, a seconda di come preferiscano definirsi[6]. Murphy, studiando la propria condizione dopo aver contratto un tumore altamente invalidante, evidenzia come le persone con compromissioni fisiche di lunga durata non rientrino nelle categorie sociali ordinarie: non sono né malate né sane, né pienamente partecipi né totalmente escluse dalla società; vivono cioè in uno stato di sospensione, in un “limbo sociale” ai margini del sistema formale. Questa condizione di è ulteriormente esplorata attraverso il riferimento ai riti di passaggio di Arnold van Gennep e alla rielaborazione di Victor Turner: la fase liminare, intermedia tra la separazione e la reintegrazione, annulla lo statuto precedente e rende possibile l’acquisizione di quello nuovo. Tuttavia, come sottolinea Murphy, per la persona con disabilità, questo passaggio a un nuovo statuto spesso non avviene mai, rimanendo la persona in una condizione di sospensione strutturale. Come scrive Schianchi, è nella pratica delle relazioni che la sua stessa umanità viene messa in dubbio facendo riferimento a corpi “deformati o malfunzionanti”; la reazione sociale che segue a questa disumanizzazione è spesso di controllo e messa a distanza: le biografie di persone disabili, disabilitate o con disabilità e dei loro mostrano la violenza e la pervasività di tali azioni sistemiche di controllo e distanziamento.

Nel contesto di questo “limbo sociale”, la questione dell’identità assume un ruolo cruciale, essendo sia la base di pratiche salutari di accettazione e cura di sé, sia di possibili forme di rivendicazione per contrastare gli elementi strutturali in cui l’orientamento asimmetrico delle relazioni si cristallizza. Inoltre Schianchi evidenzia che la riattivazione del dibattito tra e soggettività con esperienza di disagio psichico sta generando nuove forme di attivismo, nuova consapevolezza e un tentativo di riappropriazione del linguaggio legato alla “follia”, in linea con le prospettive dei Mad Studies, che valorizzano l’esperienza vissuta e propongono una rilettura critica delle categorie psichiatriche[7].

Elena, tornata a Trieste dopo una crisi psicotica che la sorprende nel pieno di un viaggio di lavoro all’esterno, è impegnata negli ultimi anni in un viaggio interiore che le permette di curare la propria salute mentale in rapporto con un servizio che, insieme all’intervento medico, offre anche opportunità di impegno culturale e socializzazione. Il suo percorso non è una lotta contro la malattia come un nemico esterno, ma un processo di accettazione e amore per sé stessa, pur nella “” che essa sperimenta nella sua condizione di “follia”. La diagnosi di malattia mentale, infatti, arriva per Elena a ridimensionare le aspettative di un percorso esistenziale che si svolgeva sui binari di un sicuro e gratificante lavoro intellettuale: la domanda su “cosa sarebbe potuto essere” rischia sempre di riproporsi ripiombandola nella disperazione delle giornate più cupe. La narrazione di questa oscillazione è coerente con una visione della come ricostruzione soggettiva di significato: un percorso irriducibilmente individuale, indipendente dalla mera remissione dei sintomi, verso una vita significativa nonostante la presenza della malattia mentale, a cui il soggetto si senta legittimato a conferire il senso che ritiene opportuno narrando in prima persona l’instabile centralità dell’esperienza vissuta.

 

La cura e il servizio

Il libro di Elena pone un’altra questione fondamentale sul rapporto tra la Persona con Esperienza Diretta e il servizio presso cui ella si cura: di cosa la persona con esperienza è “esperta”? In che rapporto sta questo “sapere esperienziale” con il servizio presso cui la persona si cura? Per chiarire questo tema dobbiamo partire riconoscendo che ad oggi non abbiamo nessuna garanzia che la persona Esperta in Supporto tra Pari non sia altro che una figura manipolabile, strettamente dipendente dal servizio in cui svolge il suo percorso di cura, nel quale assurge ad una forma di identità-premio (la cosiddetta partecipazione tokenistica) posta alla fine di un percorso di mero intrattenimento, che orienti gli sforzi individuali dell’utente alla compliance e d’altra parte consenta al corpo professionale del servizio stesso di legittimarsi come progressista e aggiornato sul mercato delle “buone pratiche”. L’idea di un complessivo “orientamento alla ” non aiuta a dirimere del tutto questo genere di questioni. La recovery, in un contesto in cui spesso si lamenta una “povertà di studio sulla metodologia delle pratiche che si richiamano a questo concetto”[8], è ormai al centro di numerosi dibattiti che ne hanno messo in luce l’incapacità di descrivere le reali e concrete prassi dei servizi che dichiarano di adottarne l’orientamento e di cogliere in modo denso i fenomeni che ne qualificano le abitudini e le azioni[9].

Quando Elena racconta la sua esperienza di cura distingue molto chiaramente tra i fattori positivi, che l’hanno supportata nel suo percorso, e quelli negativi, che rischiano sempre di farla ricadere nella sofferenza. Le cose positive, sia sul piano della relazione clinica sia di quello delle opportunità offerte dal servizio, sembrano fortunatamente un po’ di più: la disponibilità di luoghi in cui coltivare i suoi interessi intellettuali e continuare a fornire un contributo alla società in questo ambito, la relazione con il medico che le consente di aprirsi, la possibilità di iniziare e poi terminare percorsi facilitati dal servizio che avevano in primo tempo suscitato la sua curiosità e poi si erano rivelati inadatti a lei (in particolare quello di ). Ci sono anche le cose negative, come dicevamo: se ci limitiamo al contesto del servizio triestino, riguardano la relazione clinica con un medico curante (non lo stesso di prima): quando le parole del medico derubricano una esperienza a sintomo, senza aprire lo spazio in cui possano fluire la parola e il racconto, oppure quando la sua lettura “tecnica” di una situazione, dietro il paravento di un semplicistico buon senso, nasconde un pregiudizio moralistico che ha l’effetto reale di inchiodare Elena a identità e ruoli sociali precostituiti. In questo senso vediamo come la “recovery” nella pratica sia strettamente dipendente da orientamenti relazionali, interpretazioni e pratiche dei terapeuti, costituendo qualcosa che, lungi dal mero giustapporsi all’azione medica, ne taglia trasversalmente i contenuti: il sapere della persona Esperta, dunque, in che relazione dovrebbe stare con il sapere medico? Come può condizionarne gli orientamenti e gli approcci?

Questa domanda ci lascia con un dubbio che il libro di Elena non basta a chiarire. Facciamo riferimento a due argomenti del libro che mostrano i segni di una ambiguità ancora aperta: quello dell’identità e quello degli psicofarmaci. Nel libro Elena si interroga sulla sua identità e sul rapporto che la follia ha con essa: si tratta di una riflessione importante, che si sviluppa lungo i vari capitoli e tocca gli argomenti già trattati nel paragrafo precedente di questa recensione, quello a proposito del tema “identity first” o “person first”. Ma qui si vuole aggiungere un punto: può una riflessione sull’identità non mettere in questione gli impianti epistemologici e istituzionali entro cui le categorie attraverso cui si definisce un’identità vengono forgiate? Il “sapere che viene dall’esperienza” può dirsi tale se non si interroga sui modi in cui le esperienze inusuali, i comportamenti disturbati o disturbanti e le espressioni di sofferenza vengono razionalizzate attraverso il sapere medico? il secondo punto ha a che fare con le stesse questioni. Elena, in una dichiarazione che generalizza la sua esperienza, conferma l’importanza degli psicofarmaci nelle cure; non si limita cioè a sostenere che gli psicofarmaci sono stati importanti nel suo personale percorso, scrive che gli psicofarmaci sono importanti per chiunque voglia curare una schizofrenia. Come possiamo pensare che una persona con Esperienza elabori una precisa visione di come debba essere trattato un disturbo dal punto di vista farmacologico? Non è forse, questa che Elena esprime, la visione del servizio in cui essa ha trovato giovamento, semplicemente interiorizzata e propagandata? Rispetto a quante altre cose, che restano in ultima analisi sotto il potere di dirigenti medici e primari, il presunto “sapere per esperienza” resterà solo una amplificazione senza rielaborazione?

 

Conclusioni

Il memoir di Elena Cerkvenič si situa dunque in un punto nevralgico del dibattito contemporaneo sulla salute mentale e sul coinvolgimento dei cosiddetti Utenti Esperti, sia per le cose che ci dice sia per le domande che lascia aperte. La sua narrazione intima e potente della convivenza con la schizofrenia mette in luce un aspetto che ad oggi non era mai stato esplicitato nel dibattito sulla recovery: quanto la recovery possa coincidere in ultima analisi con la scelta identitaria conseguente all’accettazione della propria esistenziale. Se smettiamo di considerare tale liminalità come una minorità irrevocabile a cui le persone disabilitate sono costrette e iniziamo a renderci conto di come essa caratterizzi la vita di tutte noi. possiamo dire che il libro di Elena avrà avuto un impatto importante.

Per quanto riguarda invece le domande rimaste aperte, come spesso accade quando ci si trova di fronte alle voci di soggettività appartenenti a categorie marginalizzate, si aprono due strade nel campo di noi tecnici e professionisti privilegiati in un mondo abilista e sanista[10]: dare spazio a quelle voci per metterci in discussione, aprire con esse profondi dibattiti per ripensare le categorie della disabilità e della malattia mentale, oppure usare le loro testimonianze personali come strumento per corroborare le nostre teorie e le nostre identità progressiste, al fine di riprodurre infinitamente il nostro privilegio politico ed epistemico.

,
sociologo,
collaboratore dell’Istituzione G. F. Minguzzi

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NOTE:

  1. Per una ricognizione su questo dibattito, sui contenuti dei e sul concetto di “critica al modello medico della disabilità” si veda E. Valtellina, a cura di, Teorie critiche della disabilità. Uno sguardo politico sulle non conformità fisiche, relazionali, sensoriali, cognitive, Mimesis, Milano 2024. Per una introduzione ai Mad Studies si veda: L Negrogno, Gli studi della follia. Un campo di interrogazione critica sulla salute mentale, in «Machina», consultato il 23/04/2025
  2. Si veda I. Hacking, Plasmare le Persone. Corso al Collège de France (2004-2005), Quattroventi, Urbino, 2008
  3. Si veda D. Milton, The double empathy problem, in «International Conference on Neurodiversity: A Paradigm Shift In Higher Education & Employment», Dublin, Ireland (online), Unpublished, 3-4 Dec 2020
  4. Si veda su questo E. Faccio, M. Rocelli, L. Bitetti, G. Salamina, F. Mangione. e L. Aquili, One or many recoveries? Recoveries in the plural for a better understanding of one’s healing journey, in «Health Expectations», 1369 – 6513, article Id HEX70209, 2025
  5. P. Carozza La Recovery: perché ne parliamo da 30 anni ma non riusciamo a realizzarla?, Nuova Rassegna di Studi Psichiatrici, 1/2025
  6. M. Schianchi, A proposito di liminalità. Riflessioni su un concetto antropologico come chiave che interroga il sistema formativo e il suo ruolo nel sociale, in «L’integrazione scolastica e sociale», Vol. 18, n. 4, novembre 2019
  7. M. Schianchi, e critica alla : incontri sporadici, in «Rivista sperimentale di freniatria: la rivista dei servizi di salute mentale», CXLVII, 3, 2023
  8. A. Martinelli, T. Pozzan, E. Procura, C. D’Astore, D. Cristofalo, C. Bonetto e M. Ruggeri,Feasibility and Impact of Recovery-Oriented Practices in an Italian Mental Health Service: A Pilot Study, in revisione, «researchsquare.com», 2024, consultato il 15/01/2025
  9. L. Negrogno, Le condizioni di lavoro nel dibattito pubblico sui servizi di salute mentale, in «Rivista delle », 1/2025
  10. Sul concetto di “sanismo” si veda J.M. Poole, T. Jivraj, A. Arslanian, K. Bellows, S. Chiasson, H. Hakimy, J. Pasini and J. Reid, Sanism,‘mental health’, and social work/education: A review and call to action, in «Intersectionalities: A Global Journal of Social Work Analysis, Research, Polity, and Practice», 1, pp.20-36, 2012.