È online la Guida all’uso della documentazione sui servizi e le politiche sociosanitarie per le persone con disabilità, a Bologna, negli anni Settanta e Ottanta del Novecento. La guida è realizzata nell’ambito del progetto Memorie vive, condotto dall’Istituzione Gian Franco Minguzzi, IRESS (Istituto Regionale per i e Sanitari, la formazione e la ricerca applicata) e Comune di Bologna (Dipartimento e promozione del benessere di comunità). Pubblichiamo un estratto del testo, con un focus, a cura di , sul cambio di paradigma e di lessico che si è delineato negli anni. L’intera guida è disponibile qui.

Introduzione
La Guida all’uso della documentazione sui servizi e le politiche sociosanitarie per le persone con disabilità illustra i contenuti delle fonti individuate, dalla bibliografia al materiale d’archivio fino alle interviste realizzate ai testimoni, a partire da una analisi del superamento delle “istituzioni totali”, della nascita dei e sanitari e della chiusura delle “scuole speciali”, con il conseguente processo di inserimento di bambini e ragazzi nelle scuole. Quest’ultimo aspetto vide Bologna come una realtà assolutamente all’avanguardia, con una sperimentazione che anticipò di molti anni la legislazione nazionale. Vengono poi descritte le principali innovazioni dal punto di vista delle professioni sociali, con una particolare attenzione per la figura dell’educatore, vera e propria innovazione legata alla nascita dei nuovi servizi e ai nuovi bisogni di territorializzazione, di inserimento sociale, scolastico e lavorativo. Nel capitolo successivo vengono analizzati il ruolo dell’associazionismo e i contributi che seppe portare al percorso di costruzione di un sistema di servizi. Inoltre, è presente una panoramica dei modi in cui la disabilità è stata percepita, raccontata e rappresentata negli anni oggetto del nostro lavoro e come questi si siano evoluti fino ai giorni nostri. Infine viene fornito un quadro delle principali leggi relative ai processi descritti e un riassunto cronologico degli eventi trattati.

Il materiale d’archivio di tipo orale a cui la guida fa riferimento riguarda un corpus di interviste svolte a Bologna tra il 2022 e il 2024 a testimoni privilegiati, ma attinge anche al fondo documentale raccolto attorno ad un’altra Guida all’uso della documentazione riguardante “I servizi e le politiche sociosanitarie per , e famiglia” del progetto Memorie vive, dimostrando l’intersecarsi delle e l’intenso fermento culturale dell’epoca considerata.

Il cambio di paradigma e di lessico
Le intervistate e gli intervistati restituiscono un patrimonio lessicale che è testimone dei tempi vissuti e attraversati, ma anche della difficoltà di parlare al presente, e con una terminologia corretta, di persone che per anni sono state classificate e pensate con altre parole: persone con handicap, malati di mente, insufficienti mentali, pseudo insufficienti mentali, handicappati, spastici, mongoloidi, ospiti, “ragazzi”, “i gravi”, persone con disabilità. Così come si parla di inserimento, globalità della persona, di situazioni gravi o disperate.

Infermi, inabili, invalidi (Legge 118/71 “Disposizioni in favore dei mutilati e invalidi civili”), minorati, idioti, scemi, deficienti, oligofrenici, ritardati, handicappati, diversamente abili, disabili intellettivi. Questi alcuni dei termini che si sono susseguiti nel corso del Novecento per definire quelle che oggi, con la ratifica della Convenzione O.N.U. sui alle Persone con disabilità (nel 2009), vengono chiamate ufficialmente, e in maniera politicamente corretta, “persone con disabilità”. Espressioni spesso interscambiabili, usate in contesti giuridico-istituzionali, ma anche nel gergo quotidiano, queste diciture sono state a lungo prive di una codifica concettuale, e sono diventate nozioni giuridiche prese a prestito dalla medicina, dal senso comune, dal mondo del gioco e dello sport.

Il terreno epistemologico su cui si edifica il vocabolario utilizzato richiama in primis i due modelli esplicativi principali proposti nel corso degli anni per “spiegare” la disabilità, quello medico e quello sociale. Si tratta di modelli che si trovano ad essere giustapposti per ragioni analitiche, ma che di fatto sono spesso sovrapposti. In sintesi, si può dire che il primo enfatizza gli aspetti biologici e individuali della disabilità, proponendo un’assistenza medica come soluzione prioritaria e, a livello politico, si traduce in politiche di assistenza sanitaria. Il secondo modello, invece, vede la disabilità come un costrutto dell’ambiente sociale (in una complessa interazione di variabili sociali, culturali, economiche) e non una caratteristica specifica del singolo. Richiede, pertanto, azioni sociali ed è responsabilità della società nel suo complesso, divenendo a livello politico un problema anche di umani.

Se è del 1970 la prima Classificazione delle Malattie (, ICD – International Classification of Diseases), è dal 1980 in poi che si impone un approccio medico individualistico piuttosto marcato e comunemente associato con la Classificazione Internazionale delle Menomazioni, Disabilità e Svantaggi Esistenziali (, ICIDH – International Classification of Impairments Disabilities and Handicaps).

L’ICD risponde all’esigenza di cogliere la causa delle patologie, fornendo per ogni sindrome e disturbo una descrizione delle principali caratteristiche cliniche e indicazioni diagnostiche. Si delinea quindi come una classificazione causale che focalizza l’attenzione sull’aspetto eziologico della patologia. Le diagnosi delle malattie vengono tradotte in codici numerici che rendono possibile la memorizzazione, la ricerca e l’analisi dei dati, ma che non consentono di cogliere gli eventuali effetti disabilitanti dal punto di vista funzionale.

Il concetto fondamentale dell’ICD è quindi basato sulla sequenza:

EZIOLOGIA → PATOLOGIA → MANIFESTAZIONE CLINICA

La scissione della “malattia” dal contesto in cui questa vive, rivela ben presto l’esigenza di un superamento concettuale dell’ICD, inducendo nel tempo l’ ad elaborare un nuovo manuale di classificazione, in grado di focalizzare l’attenzione non solo sulla causa delle patologie, ma anche sulla dimensione ambientale dell’individuo con una specifica patologia (attualmente viene utilizzato ICD-11 del 2014).
La Classificazione Internazionale delle Menomazioni, Disabilità e Svantaggi Esistenziali. É concepita quale complemento dell’ICD e viene sviluppata negli anni ‘70 del secolo scorso da un gruppo di sociologi coordinati da Philip Wood. La ICIDH è pensata per chiarire alcuni concetti e promuovere un’appropriata terminologia in riferimento alla disabilità, al fine di facilitare la ricerca e le scelte politiche in un’area che, a seguito dei danni indiretti provocati dalla seconda guerra mondiale, stava diventando di crescente importanza. Molti stati nazionali avevano cominciato a promuovere politiche assistenziali per persone “malate ed invalide”, ma in ragione della crescente prosperità e dei progressi della medicina il numero delle persone con disabilità era cresciuto in misura sostanziale e si faceva sempre più necessaria l’applicazione di un linguaggio unificato e standardizzato che permettesse il confronto e la condivisione in materia di salute.
La classificazione ICIDH si fonda esclusivamente su definizioni mediche e su assunti bio-fisici di normalità. Il principio guida propone una distinzione basata sulla sequenza di tre diverse condizioni:

MENOMAZIONE → DISABILITÁ → HANDICAP

La menomazione è definita come la causa sia della disabilità che dell’handicap. Un’anomalia (psicologica, fisiologica o anatomica) genera una limitazione nella capacità di compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza “considerati normali per un essere umano”. La disabilità, che rappresenta l’oggettivazione della menomazione, comporta quindi l’handicap, inteso come svantaggio (neutro e naturale) dell’individuo nella socializzazione di una menomazione o di una disabilità. Di conseguenza l’approccio adottato pone le persone che abbiano una menomazione in uno stato di bisogno di assistenza specializzata, di dipendenza dai professionisti del campo sanitario per ogni tipo di supporto terapeutico e sociale. Nel 1997, con l’ICIDH-2, diminuisce il nesso causale e unidirezionale e si cerca di enfatizzare la dimensione sociale adottando una terminologia più neutrale: se a livello del corpo si usa ancora il termine “menomazione” (impairment), a livello della persona il riferimento è all’ “attività” (activity), laddove, a livello sociale, il termine handicap viene sostituito da “” (participation). Tuttavia, nella prassi, più che favorire una visione unitaria della persona, viene focalizzata l’attenzione sugli aspetti negativi, accentuando il dominio della cultura sanitaria e della riabilitazione fisica o psico-sociale che, se da un lato permette il superamento di interventi di tipo assistenziale (eredità operativa e culturale degli istituti caritatevoli), dall’altro sminuisce la dimensione sociale dell’evento-disabilità. Significativa in tal senso sembra essere stata l’adozione nel 1993 da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite della Risoluzione The Standard Rules on the Equalization of Opportunities for Persons with Disabilities (“Norme Standard per la parità di opportunità per i disabili”). Il ruolo delle Norme era quello di rappresentare uno standard internazionale e uno strumento di controllo per garantire il rispetto dei umani e civili. Nonostante tale risoluzione non costituisse un vincolo legale, ha rappresentato una forte raccomandazione ai governi per l’adozione di politiche indirizzate a garantire a tutti i cittadini la egualitaria alla vita della società.

Nel 2001 l’ procede alla stesura di un nuovo strumento di classificazione, la Classificazione Internazionale del Funzionamento delle Disabilità e della Salute, (, ICF – International Classification of Functioning, Disability and Health) che serve da “modello di riferimento per la descrizione della salute e degli stati ad essa correlati”. Accettata dai 191 paesi che compongono l’Assemblea Mondiale della Sanità, tra cui l’Italia, la nuova Classificazione, già nel titolo del testo, è indicativa di una maggiore considerazione del contesto esistenziale dello stato di salute: un cambiamento di prospettiva volto a individuare non più le “conseguenze delle malattie”, ma le “componenti della salute”. In essa si definisce la disabilità come la conseguenza o il risultato di una complessa interazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali e ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive.
Viene quindi proposto un approccio multidimensionale bio-psico-sociale che analizza la vita della persona nei termini di funzionamento, disabilità e salute, utilizzando come qualificatori descrittivi la performance e la capacità. Pensata per domini descritti dal punto di vista corporeo, individuale e sociale – laddove per dominio si intende “un insieme pratico e significativo di funzioni fisiologiche, strutture anatomiche, azioni, compiti, o aree di vita correlate” – la vita della persona viene analizzata nei termini del funzionamento (“termine ombrello che comprende tutte le funzioni corporee, le attività e la ), della disabilità (“termine ombrello per menomazioni, limitazioni dell’attività o restrizioni della ”) e della salute.

È stata la L. 104/92 (“Legge Quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i delle persone handicappate”) a definire giuridicamente l’”handicap” e la “persona portatrice di”: “É persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”.

La Legge esprime attenzione nei confronti della persona riconosciuta nella sua globalità e non in considerazione del tipo di menomazione o di disabilità, seppur l’uso del termine “handicappato” non è ancora messo in discussione. Tuttavia, non si parla più di “handicap grave” ma di “persona con handicap in situazione di gravità”, con un’espressione che indica una visione dinamica della condizione psico-fisica e relazionale del disabile.

A completamento di questo breve excursus sulla terminologia, sebbene al di fuori e ben lontano cronologicamente dagli anni presi qui in esame, ci sembra opportuno menzionare il recente decreto Decreto legislativo n° 62, 3 maggio 2024, il cosiddetto “decreto disabilità” (Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato”) con il quale si conclude l’iter legislativo di attuazione della Legge 227/21 Delega al Governo in materia di disabilità, che di fatto modifica la terminologia in essere dal 1992.

Il cosiddetto “Decreto Disabilità” introduce una nuova terminologia e invita le istituzioni a sostituire termini ormai desueti in tutta la documentazione della Pubblica Amministrazione. L’art. 4 del decreto (“Terminologia in materia di disabilità”) precisa infatti che la parola «handicap» è sostituita da «condizione di disabilità» e che le locuzioni «persona handicappata», «portatore di handicap», «persona affetta da disabilità», «disabile» e «diversamente abile», sono sostituite dall’espressione più inclusiva: «persona con disabilità». Aggiunge poi che le espressioni «con connotazione di gravità» e «in situazione di gravità», sono sostituite dalle seguenti: «con necessità di sostegno elevato o molto elevato». Infine il termine «disabile grave», è sostituito da «persona con necessità di sostegno intensivo».

 


antropologa, collaboratrice dell’Istituzione Minguzzi