Il 27 maggio è la giornata che la Regione Emilia-Romagna dedica ai caregiver, per l’occasione riproponiamo un testo di Lucia Luminasi, Vice Presidente del CUFO DSM-DP, già apparso sul sito “Parliamone insieme”, che fa il punto sul ruolo di una figura spesso fraintesa.
I familiari di persone adulte con patologie psichiatriche, coabitanti o meno, pur avendo un carico di cura e di stress molto pesante e prolungato solitamente non vengono considerati tali. Invece servirebbero gruppi di sostegno ai caregiver in tutti i Centri di Salute Mentale

Ecco l’ennesima parola di derivazione anglosassone, apparentemente così ben ‘definitoria’ da diventare un termine tecnico comunemente accettato. Ricordo che qualcuno avrebbe suggerito ‘accuditore’, o ‘accudente’, ma non c’è stato verso, perciò teniamoci le pronunce terribili, i dubbi sul plurale con o senza la esse e le etimologie fantasiose. Comunque sia, per quanto alieno, una volta adottato dagli addetti ai lavori e divulgato al popolo, il termine dovrebbe rendere subito chiaro e univoco il concetto a cui si riferisce. E invece… Basta soffermarcisi un po’ per rendersi conto che si presta ancora a dubbi e fraintendimenti.

Partiamo dalle due parti che compongono la parola, care e giver, che d’acchito traduciamo rispettivamente con ‘cura’ e ‘chi dà’. Facendo due più due arriviamo a un ‘chi dà cura’, espressione un po’ goffa… Del resto se passiamo al più elegante ‘chi presta cura’, siamo già nelle pesche: ‘prestare’ è un verbo che abita nel campo semantico dell’economia e ci suggerisce da un lato l’idea di prestazione d’opera, di servizio, dall’altro quella di beni o denari da consegnare a qualcuno, ma solo per un po’. Dunque, occorre proprio che ci chiariamo: la cura di cui parliamo, si presta gratis o a pagamento? E si presta solo per un po’ o per sempre? Dipende.

Ecco che davanti a noi si aprono le famose praterie su cui vagare sperando di arrivare prima o poi a un dunque: chi è che risponde al nome di caregiver? Che cosa fa, per quanto tempo, a quali condizioni, a quale titolo, con quale responsabilità, con quale formazione, a quale prezzo (in senso proprio e figurato), eccetera eccetera?

La stessa cosa si ripropone se ci domandiamo a chi è rivolta la cura, perché se c’è chi dà, ci deve essere per forza chi riceve. In generale, ciascuno di noi dà e riceve cure, perché l’uomo – come sappiamo – è un essere sociale, ma naturalmente c’è chi ne ha più bisogno e chi meno, chi solo ogni tanto e chi sempre, chi ricambia il favore e chi no, chi paga e chi può solo esprimere gratitudine. E c’è anche chi non è consapevole di ricevere cure e addirittura chi le riceve suo malgrado. Quasi tutti, infine, ne riceveremo pure da morti.

È chiaro che andando avanti di questo passo ci inoltriamo in un discorso che da filologico si fa filosofico. L’unico modo per tagliare la testa al toro è basarsi sulla normativa e vedere come viene definito il caregiver ai fini del riconoscimento di un ruolo con conseguenti doveri e diritti. Certo, così il campo si restringe, ma vedremo che restano ugualmente margini di dubbio e si affacciano alcuni perché, in particolare da parte di chi dai suddetti diritti rimane escluso, pur avendo la sensazione di sobbarcarsi ugualmente dei doveri.

Mentre i caregiver professionali retribuiti (badanti, prestatori di servizi alla persona, operatori del sanitario e del sociale… E magari ci mettiamo anche gli ESP, o no?) restano nell’ambito della legislazione sul lavoro, da qualche anno il legislatore ha cominciato, nell’ambito del welfare, ad occuparsi di soggetti chiamati ‘caregiver familiari’.

Può essere istruttivo scorrere, ad esempio, l’introduzione al Decreto 17 ottobre 2022  “Criteri e modalità di utilizzo delle risorse del Fondo per il sostegno del ruolo di cura e assistenza del caregiver familiare per l’anno 2022” (22A07236)  (GU Serie Generale n.301 del 27-12-2022), in cui vengono ricordati vari provvedimenti succedutisi dal 1980 a oggi: si può notare innanzi tutto come la terminologia cambi nel tempo in virtù del ‘politicamente corretto’ e soprattutto in base all’evoluzione culturale nel campo del welfare e dei diritti civili. In questa carrellata i soggetti destinatari di sussidi e cure sono definiti via via: ‘invalidi civili, totalmente inabili’, ‘persone handicappate’, persone con ‘disabilità’. Più recentemente si parla di ‘non autosufficienza’. E finalmente entra in scena il caregiver familiare.

Questa figura all’art. 1, comma 255 della legge 30 dicembre 2017, n. 205 è così definita: “la persona che assiste e si prende cura del coniuge, dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto, di un familiare o di un affine entro il secondo grado che, a causa di malattia, infermità o disabilità, anche croniche o degenerative, non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé, sia riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata, o sia titolare di indennità di accompagnamento”.

Come si vede si tratta di una casistica piuttosto ampia, pur con alcuni paletti discutibili (perché ad esempio limitare al secondo grado di parentela? E perché escludere rapporti comunque solidi di tipo amicale o di vicinato solidale?).

Passando però all’applicazione concreta per la distribuzione di fondi possono sorgere controversie, perché, come abbiamo visto al Tavolo “E noi caregiver?”, organizzato da CUFO e Istituzione Minguzzi, i parametri stabiliti dalla variegata normativa vigente non sono univoci. La definizione di caregiver data dalla Regione Emilia Romagna, ad esempio, risulta essere più ampia ed elastica di quella stabilita dalle leggi nazionali, e ciò potrebbe portare problemi all’atto della rendicontazione finale.

Fra le situazioni dubbie vale la pena di segnalare quella dei familiari di persone adulte con patologie psichiatriche, coabitanti o meno, che pur avendo un carico di cura e di stress molto pesante e prolungato, solitamente non vengono considerati – o addirittura non si percepiscono essi stessi – come caregiver e quindi come possibili fruitori di forme di sostegno, a meno che i loro cari non abbiano un deficit intellettivo o una certificazione di disabilità al 100%, cosa tutt’altro che generalizzata.

Qui, oltre alla probabile disinformazione sulle risorse e sulle opportunità offerte dalle istituzioni e dal territorio, entrano in gioco alcuni fattori molto tipici: il rapporto con la persona con patologia, che in quanto adulta può non accettare interferenze anche nel caso in cui poi non sappia gestirsi adeguatamente; il timore dello stigma, o l’autostigma, che fa sì che molti preferiscano evitare di rendere pubblico il loro problema; il ripiegamento all’interno del nucleo familiare ristretto per impoverimento progressivo dei rapporti sociali; l’invecchiamento del caregiver, molto spesso unico genitore superstite, rassegnato a una vita in simbiosi a causa della cronicità…

C’è anche da considerare il fatto che, mentre il rischio povertà riguarda purtroppo la maggior parte delle persone con patologia psichiatrica che vivono sole, il problema per i familiari è complesso e non si esaurisce necessariamente in bisogni di tipo economico, più o meno risolvibili mediante sussidi: tutte le famiglie, anche quelle abbienti, avrebbero necessità di sostegno psicologico e di momenti di sollievo, un aiuto che generalmente non viene fornito a sufficienza dai servizi e che invece sarebbe un valore aggiunto anche per la recovery dei loro cari.

La diagnosi di disturbi psichici avviene generalmente in età giovanile o adulta o, nel caso di precoci patologie senili, ancora più avanti. In famiglia è una specie di lutto a cui non si è preparati: tutti gli equilibri si spezzano e ci si trova di fronte a un mondo sconosciuto che spaventa. L’emergenza non dà il tempo e la calma per informarsi, capire, farsi una ragione e scegliere fra i possibili percorsi. Poi si viene a creare un equilibrio precario, una quotidianità di difficile gestione, tra gli alti e bassi di una patologia dalla durata probabilmente infinita, e grande è la preoccupazione per il futuro. Non bisogna dimenticare il fatto che i familiari costretti a farsi caregiver di un loro caro problematico o anche di più d’uno, non sono necessariamente genitori, ma anche fratelli, coniugi, figli anche giovanissimi, interi nuclei familiari la cui salute mentale viene messa a dura prova. Per spezzare l’isolamento e il senso di solitudine, sarebbe opportuno rendere sistematici dei momenti di incontro in gruppi di pari o misti, meglio se facilitati da psicologi di comunità e/o da ESP, ma la pratica non è ancora sufficientemente diffusa. Laddove è stata portata avanti e valorizzata, invece, non solo ha dato ottimi risultati nel sostegno alle famiglie e nella recovery degli utenti, ma ha innescato processi virtuosi di partecipazione diretta e di impegno civico. Sono comunque realtà che fanno presto a spegnersi, se non vengono costantemente incoraggiate e incentivate.

Grazie a un invito da parte del DSM-DP di Bologna a “Manifestazione di interesse per lo sviluppo di progetti finalizzati al sostegno dei caregiver che assistono i loro familiari al domicilio mediante azioni di Psicoeducazione e Sollievo – Area Salute Mentale”, nel 2022 sono stati presentati per la prima volta anche da parte di associazioni del CUFO afferenti alla Psichiatria Adulti (AITSaM, Il Ventaglio di ORAV APS, Progetto Itaca Bologna) alcuni progetti a favore dei familiari caregiver di persone portatrici di disagio grave e prolungato. Tutti i progetti hanno avuto grande seguito e successo, ma purtroppo sono andati a rendicontazione alla fine dell’anno e non è stato previsto, almeno finora, un rinnovo di finanziamenti con tale finalità.

NelPiano programma per le azioni di partecipazione, equità e umanizzazione delle cure dell’AUSL di Bologna” per il triennio 2022-2024, però, l’obiettivo di “riconoscimento, valorizzazione e azioni a sostegno dei caregiver” è addirittura il primo. In questa fase, quindi, la prospettiva di veder nascere gruppi per il sostegno ai caregiver in tutti i CSM è abbastanza realistica, anche perché è stata inserita – per iniziativa dipartimentale – come standard di eccellenza nel percorso di Accreditation Canada, attualmente in fase di esecuzione. Le principali difficoltà sorgono dal fatto che a causa della cronica carenza di personale gli operatori hanno scarso spazio di manovra, ma la forza delle associazioni potrebbe portare una marcia in più.

A mio parere, se tutti crediamo nell’importanza di sostenere chi sostiene, questo è un treno da non perdere.

Lucia Luminasi
Vice presidente CUFO DSM-DP Bologna