In occasione della presentazione del libro “Dalle Case della Salute alle Case della . La sfida del PNRR per la sanità territoriale” di e , riportiamo un intervento di , che sarà tra i discussant insieme a Lorenzo Roti, direttore sanitario Ausl Bologna e Anna Del Mugnaio, consigliera del quartiere Navile, con la moderazione di Flavia Franzoni, Commissione scientifica IRESS. La presentazione del libro si svolgerà 4 aprile 2023 alle ore 17.00 presso la Biblioteca della e delle Scienze umane “G. F. Minguzzi – C. Gentili”, in Via Sant'Isaia, 90 – Bologna

Il libro di Brambilla e Maciocco “Dalle Case della Salute alle Case della – La sfida del PNRR per la sanità territoriale” (2022) fornisce l'occasione di approfondire la relazione tra Cure Primarie e nell'attuale conformazione dei servizi territoriali. Il libro contiene una serie di stimoli utili a riflettere sulla necessaria ridefinizione della mission e modalità di presa in carico per i bisogni di della popolazione, anche sulla base di nuovi modelli di lettura epidemiologica, capaci di restituire la stratificazione dell'utenza per livelli di rischio clinico e necessità di intensità assistenziale. La sfida non è nuova ma in questo momento il tema è più che mai centrale, vista la proliferazione di discorso e consapevolezza sui disturbi di ansia, depressione e altre condizioni cosiddette “lievi”, che sempre di più interessano una popolazione nuova rispetto a quella tradizionalmente afferente ai centri di . Si tratta quindi di cogliere questa occasione per ridefinire la mission dei servizi di in un'ottica di intervento territoriale, pubblico, di iniziativa e di promozione della salute.

Nell'attuale configurazione dei servizi di salute mentale, sebbene sulle strutture organizzative ci sia una certa variabilità sul piano nazionale (1) , è stabilito che i Centri di Salute Mentale siano le strutture territoriali che declinano sul piano locale la totalità delle funzioni in capo ai Dipartimenti di Salute Mentale per il segmento di utenza adulta. Questa unità delle funzioni per fasce di utenza è una caratteristica che va particolarmente sottolineata, considerando che non tutti i Dipartimenti di Salute Mentale in Italia integrano al loro interno, oltre ai servizi rivolti ai pazienti psichiatrici adulti, anche i servizi rivolti alla popolazione infantile-adolescenziale o alle dipendenze. La presenza di diverse articolazioni per diverse fasce di utenza non cambia questo principio: la prevenzione, per esempio, è un diritto che spetta alle persone adulte come a quelle adolescenti in egual misura. La questione si può ulteriormente complicare se teniamo anche in considerazione i servizi di psicologia territoriale o di neurologia, come avviene con particolari programmi integrati a Bologna: la prestazione psicologica, o psicoterapeutica, o la valutazione di neurodivergenza, con conseguenti indicazioni di supporti per l'inclusione, non è qualcosa che, in quanto rispondente a una articolazione organizzativa autonoma, spetti ad un definito segmento di utenza “minore” o “meno grave”.

Nel libro gli autori spiegano bene che nella storia la frammentazione e moltiplicazione di programmi “verticali” hanno favorito l'accentramento sull'ospedale e le prestazioni specialistiche, riducendo complessivamente ed equità che sono invece garantite da un approccio orizzontale e integrato dei servizi, anche in rapporto con il sociale e la . Questa sfida oggi è ricca di conseguenze per i Centri di Salute Mentale.

Integrazione significa prima di tutto che tutta la popolazione afferente a un Centro di Salute Mentale ha diritto a interventi di cura, prevenzione e riabilitazione. Con “popolazione afferente” intendiamo chiaramente tutta la popolazione presente sul in cui il Centro di Salute Mentale insiste, data la sua funzione di servizio “anche” di primo livello. Già a partire da questo chiarimento sulla popolazione, vediamo come problematico il fatto che i Centri di Salute Mentale si concentrano solo sulla popolazione presa in carico “specialisticamente”. Essere nel gruppo della popolazione “presa in carico” significa passare per l'attivazione di interventi “medico-specialistici” che dal primo contatto (molti di quelli che oggi avvengono nelle nostre AUSL Emiliano – Romagnole sono “spontanei”, cioè non passano neanche dal Medico di Medicina Generale) vanno verso il trattamento clinico-psichiatrico, che costituisce il “prodotto” più frequente secondo i sistemi informativi. Dovremmo essere molto vigili sul fatto che la prestazione “specialistica ambulatoriale” si riduca ad un primo colloquio con formulazione della diagnosi e “conseguente” prescrizione farmacologica anche per i disturbi cosiddetti “lievi”: andremmo verso una forma di psichiatrizzazione insostenibile materialmente ed eticamente, oltre che pesantemente inappropriata anche secondo la letteratura scientifica esistente.

In generale oggi sembra assistere ad una crisi delle professioni di aiuto e la particolare declinazione di questa crisi nei servizi territoriali di salute mentale si declina come “crisi di identità” rispetto al ruolo e al mandato professionale di chi ci lavora. Dialogando con operatori dei servizi in vari incontri sulla recovery (in questo periodo molto stimolanti a Bologna) è emerso un malessere relativo all'identità non solo dei singoli professionisti ma di tutto il servizio, di cui appunto risulta molto controversa la collocazione nell'ambito dei servizi specialistici o dei servizi di base.

Da questa controversa collocazione dei centri di salute mentale sull'asse specialistica/di base emergono alcuni fenomeni che iniziamo a leggere nelle conversazioni di gruppo attivate dal Recovery college:

  1. una difficoltà nella definizione dell'identità professionale del corpo medico, con i conseguenti problemi di riconoscimento, chiarezza nell'interpretazione del mandato, possibilità di usare una varietà di strumenti nella propria azione in modo equo e sostenibile. Simili problematiche sono vissute a cascata dagli altri gruppi professionali, che spesso finiscono per essere impiegati (e interpretarsi) come meri avamposti difensivi di fronte a una valanga di richieste indiscernibili e inorganizzabili, limitandosi a frapporre il proprio corpo e la propria buona volontà tra questa valanga e gli studi dei medici
  2. una difficile identificazione delle definizioni dei percorsi: assistenziali? riabilitativi? di mantenimento? con un progetto? non è quasi mai chiaro a che cosa queste definizioni facciano riferimento e soprattutto, se queste definizioni non nascondono una qualche forma “oscura” di penetrazione della Inverse Care Law di Tudor Hart (2) , vale a dire il principio secondo cui “la disponibilità di una buona assistenza medica tende a variare inversamente con il bisogno di essa nella popolazione servita”, che sappiamo spesso “occultarsi” dietro le definizioni dei gruppi di utenza
  3. questa controversa declinazione sull'asse specialistico/di bas fa sì che i CSM non abbiano al proprio interno percorsi esplicitamente differenziati – ma professionalmente integrati – per rispondere a diverse necessità assistenziali. Tale diversificazione dei percorsi sembra piuttosto avvenire “di fatto”, determinando particolari traiettorie cliniche (se guardiamo al numero di drop out per esempio, ma su questo dovremmo interrogare meglio i dati del Sistema Informativo Salute Mentale Regionale): da una parte utenti che vivono forme di “abbandono” dopo una prima visita con una diagnosi “lieve” che esita in una prescrizione farmacologica e a cui non segue mai una seconda chiamata (dovremmo a questo proposito approfondire le cartelle automaticamente chiuse dal Sistema Informativo dopo 180 giorni senza prestazioni, nel 2020 erano più di un migliaio, e a fine 2023 quante saranno?) Dall'altra si sviluppano percorsi ad alta intensità per persone con elevato “rischio clinico”, che spesso si sostanziano nel ricorso a posti letto in residenzialità o in clinica privata convenzionata. Questa divaricazione sembra caratterizzata da grandi rischi di inappropriatezza e possiamo ipotizzare che impatti su percorsi esistenziali già problematici in modo da riprodurre e aumentare le disuguaglianze sociali, provocare fenomeni di non-accettazione dell'aiuto e aumento dell'autostigma, il calo complessivo della fiducia nel servizio pubblico. Il calo di fiducia nel servizio pubblico esita, dove è possibile dal punto di vista socioeconomico, nell'aumento della domanda di psicoterapia privata (la psicoterapia costituisce una percentuale estremamente risibile delle prestazioni del servizio).

In questo vuoto di identità rispetto alle possibilità di intervento, all'appropriatezza e in fin dei conti all'etica del servizio pubblico si genera una qualità operativa e organizzativa “povera” che si concretizza in:

  • metodo di lavoro determinato dall'”urgenza”, che implica subalternità alle richieste sociali, alle altre agenzie che hanno il potere di determinare le urgenze o premere per il loro riconoscimento, generando difficoltà di integrazione e conflitti (per esempio con il sociale, il giudiziario, il penale, le agenzie di polizia, gli enti per le case popolari: le richieste che vengono da questi ambiti – declinate come richieste di controllo, prevenzione/gestione del rischio, delega della eventuale responsabilità penale dei reati…)
  • una povertà di riflessione sul mandato che comporta incapacità di esercitare una lettura decostruttiva della domanda, quindi anche di agire in modalità di iniziativa e di promozione.
    Ragionare effettivamente in un'ottica di integrazione tra salute mentale e cure primarie significa invece mantenere l'unità operativa, epistemologica e organizzativa tra momento di riabilitazione, cura e prevenzione in capo ad ogni singola struttura territoriale; pensare il proprio bacino d'utenza come l'intera popolazione residente, vale a dire trovare modalità d'azione e di lettura dei bisogni che superino la distinzione tra pazienti presi in carico e resto della popolazione affiancando a interventi medico-centrici interventi non medici, nell'ottica dell'auto aiuto, della recovery e dell'empowerment di . Lavorare in questa modalità integrata non medicocentrica significa anche restituire dignità a tutti gli altri sguardi e figure presenti oggi nei servizi (assistenti sociali, psicologi, educatori, tecnici della riabilitazione, terapisti occupazionali) ma anche utenti, famiglie, reti informali e, perché no, nuove figure professionali (Esperti per esperienza, mediatori di salute comunitaria, antropolog*, ecc).

Qual è la struttura organizzativa che può realizzare questa funzione? Come spiegano Maciocco e Brambilla le case della salute prima e le case della oggi sono incubatori di sperimentazioni e buone pratiche, dalla cui analisi possiamo dare alcune indicazioni per rispondere alle questioni aperte attuali:

  • la sanità territoriale deve assumersi come compito l'apertura ad altre agenzie ed altri sguardi (sociale e comunità in primis) per affrontare la sfida drammatica di un cambiamento epidemiologico che non si può più sostenere con l'attuale ambigua articolazione tra specialistico e non specialistico
  • è necessario, in ottica di riqualificazione della spesa pubblica, un fondo integrato sociosanitario più ampio, ma senza un paniere predeterminato di interventi verso cui spendere le risorse: la progettazione degli interventi va vincolata a forme innovative e partecipative di lettura dei bisogni, in modo dialettico con le comunità
  • per avere un rapporto positivo con la comunità bisogna aprire cantieri di verifica “popolare” sugli esiti e le prestazioni dei servizi, la loro equità, la loro capacità di ridurre le disuguaglianze. Bisogna avere fiducia nella possibilità di una cooperazione intelligente dal basso che si attiva se si aprono spazi di gestione responsabile dei poteri pubblici.


Sociologo, Istituzione Gian Franco Minguzzi

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  1. Rapporto OASI 2022 Cergas – Bocconi, “Fabbisogni e modelli di servizio in trasformazione: il ruolo dei dipartimenti di salute mentale”
  2. Si veda “La Legge dell'assistenza inversa”, di Giorgio Tamburlini, disponibile su Saluteinternazionale.info https://www.saluteinternazionale.info/2021/03/la-legge-della-assistenza-inversa/?pdf=18410