Ci piace riportare nel nostro blog il contributo, breve ma intenso, di presentato al 5° incontro del ciclo “Lavorare stanca?”, in cui ci eravamo interrogati sulle vecchie e nuove professioni, sulle profonde trasformazioni intervenute nel mondo del per effetto dell'innovazione digitale e sull'importanza di anticipare i fabbisogni di nuove competenze professionali. Ma era emersa anche la necessità di adottare un nuovo “vocabolario del ”, individuando “le parole che servono per immaginarlo, pensarlo e viverlo”. Ringraziamo l'autrice per averci segnalato “Il manifesto della nuova cultura del ”.

Smart Working. Quiet quitting. Great Resignation. Big Quit. New ways of working. Start up. Coworking. Job title. Job description. Welfare. Wellbeing. Employee experience. Employer branding. Networking. Personal Branding.
Ma anche. Ibrido. Virtuale. Da remoto. Agile.

E ancora. Lavoratori. Impiegati. Impiego. Professionisti. Professione. Dipendenti. Subordinati. Capo. Boss. Forza . Maestranze. Somministrazione. Interinali. Precari.

Maneggio, per , questi termini tutti i giorni, da anni. Alcuni sono sul mio stesso biglietto da visita e campeggiano sul mio profilo LinkedIn. Ogni giorno sono più frustrata rispetto allo svuotamento del loro significato, al fatto che sono diventati contenitori vuoti.

I primi, con ogni probabilità, perché derivano da un lessico prettamente aziendalese, di origine americana tendenzialmente digitale. Una neolingua che fa molto cool (sic!) utilizzare ma di cui non esistono – o non si vogliono trovare – equivalenti in italiano. E che pertanto risulta vuota, distante, vista con giusto sospetto dalle persone e dai non addetti HR (ops, I did it again).

I secondi perché nati fondamentalmente con la pandemia e – pur in italiano corrente – non restituiscono appieno la complessità della trasformazione in atto. Anche perché portatori non sani di malintesi organizzativi.

I terzi – i più storici, quasi tutto di derivazione sindacale diretta – che non “si appiccicano” più al mondo del lavoro attuale.

Il lavoro è rimasto senza parole, dice giustamente il secondo punto del Manifesto della Nuova Cultura del Lavoro promosso dalla rivista Senza Filtro di Stefania Zolotti e Osvaldo Danzi.

E io che di lavoro comunico il lavoro e i suoi cambiamenti non me ne faccio una ragione, che uno degli elementi fondativi della vita di ciascuno sia così clamorosamente escluso dal linguaggio.

O meglio, che ci sia rinnovamento e nuova linfa per tantissimi lemmi e aree semantiche, ma che nel nostro paese da un lato le definizioni professional-digitali siano diventati il nuovo linguaggio burocratico e dall'altro lato le parole più tradizionali siano de facto inapplicabili al lavoro di oggi, complice una cultura marxista che permeandole per decenni (industriali), le ha in qualche modo ingessate.

E non mi faccio una ragione che del lavoro si parli così poco, e che non sia nell'agenda quotidiana dei media. Ma non del singolo provvedimento, ma della gigantesca trasformazione culturale che sta attraversando e che muterà le nostre vite e quelle delle generazioni a venire. Se il lavoro rimane senza parole, inevitabilmente lavorare stanca, e stancherà sempre di più.

Grazie alla professoressa e alla mia relatrice di tesi per avermi riportato nella mia Università – la magnifica Alma Mater Studiorium di Bologna – per parlare di un tema per me così importante, all'interno del ciclo di incontri “Lavorare stanca?”.


Manager e autrice, Milano