Continuiamo il nostro discorso sul tema , riprendendo alcuni interventi presentati durante il ciclo “Lavorare stanca? Quale dignità in quale lavoro per crescere insieme“, nell'ambito del Festival della cultura 2022. Dopo i contributi di Ivonne Donegani e Angela Tomelli, di Giovanni Desco e di Silvia Zanella, riportiamo qui l'interessante approfondimento di , che già nel primo incontro del ciclo aveva posto un quesito cruciale, chiedendo “Tra aspirazioni disattese e insoddisfazione: qual è il senso del ?”. Con un'analisi attenta e rigorosa, citando fonti autorevoli e meditate riflessioni personali, l'autore sottolinea la necessità di un cambio di prospettiva, dall'individuale al collettivo, che metta al centro le persone e non le imprese, che metta al centro il salario e non il profitto. Che metta al centro la cura e l'interdipendenza tra gli esseri viventi. “La cura” è la parola chiave.

Gli interventi e le riflessioni proposte in questo primo appuntamento hanno messo al centro i soggetti che lavorano o che scelgono di non lavorare. Per tirare le fila vorrei allora fare un ragionamento a partire dall'oggetto e cioè il . In particolare, vorrei concentrarmi sul significato del , di cui pure si è parlato. Per farlo parto dal concetto di cura. Intendo la cura in senso ampio, non penso cioè solo alla cura delle persone, ma anche a quella per l'ambiente in cui viviamo, noi e altri esseri viventi. Si tratta della prospettiva che mette al centro il tema dell'interdipendenza. Parto da lì per due ragioni. La prima è perché negli ultimi anni ho molto lavorato sull'argomento. Il secondo è perché quello della cura è un terreno sul quale si muovono molte delle tensioni emerse in questo primo incontro.

Tutti e tutte ci rendiamo conto quanto quello della cura sia un ambito fondamentale per la nostra sopravvivenza, eppure è un ambito che non ha mai trovato un adeguato riconoscimento. Al contrario, sia quando è svolto internamente alle nostre case, sia quando è esternalizzato al mercato è da sempre stato il terreno di segregazione: prima di genere e poi, insieme, razializzato. E oggi in generale è una cosa di cui si occupano i poveri.

L'Italia non fa eccezione e per stare sull'attualità basta guardare al sociale. Un settore dove a mercificazione del lavoro assume tratti paradossali. Quindi, per parlare di significato del lavoro il primo elemento che mi interessa richiamare è quello della mercificazione, il dominio del “quanto” e che si basa su due convenzioni principali che hanno a che fare con il riconoscimento del lavoro.

1. Un lavoro è tale se trova un riscontro sul mercato. Non è lavoro se cucino a casa, ma se lo faccio in un ristorante sì. Questo implica che non è l'attività, la sua importanza o utilità a definire il lavoro, ma il contesto in cui si svolge. Posso essere il miglior programmatore del mondo, ma se non trovo nessuno che riconosca ed è capace di valorizzare quel che so fare, sarò comunque inoccupato. Questo aspetto secondo me è centrale per capire e magari ripensare anche le politiche che mettiamo in atto per contrastare i fenomeni di disagio occupazionale, che spesso guardano all'individuo e trascurano il contesto.

Pensiamo ai , di cui hanno parlato il Professor Rosina, il Dott. Marzano e sul quale sta lavorando il Dott. Sarti con il progetto che ha presentato. Da un lato diciamo che quello dei è un indicatore che dà conto del malfunzionamento del mercato del lavoro, dall'altro, quello che mettiamo in campo, sono politiche che insistono sulle persone, magari spingendole verso corsi di o verso attività lavorative non retribuite come i tirocini. Finiamo cioè per agire sull'indicatore e non sul fenomeno che questo indica. Tra l'altro, nel caso specifico, lo facciamo senza considerare che come sottolineava il Prof. Rosina, il non è solo inattività, ma anche scoraggiamento, disoccupazione involontaria, lavoro di cura, corsi e attività magari non riconosciute o informali.

Se guardiamo ai del 2021 in Emilia-Romagna, 41.425 su 93.227 hanno precedenti esperienze lavorative. Di questi, 8.600 erano occupati nel 2020 e una parte consistente viene dall'alloggio e ristorazione e dai servizi collettivi e personali. Mentre sono molto meno quelli che lavoravano lavorava nell'industria e nella logistica[1]. È evidente che questo dipenda da quanto ciascun settore stato colpito dalla crisi pandemica, ma non si può ignorare il fatto che se in quei settori ci fossero state condizioni di minore precarietà, l'Emilia-Romagna avrebbe avuto un numero inferiore di . Questo intendo con agire sul contesto.

2. La seconda alla base della mercificazione riguarda la retribuzione del lavoro e il modo in cui la trattiamo. Noi consideriamo la retribuzione su base oraria. L'Istat considera occupato chi ha svolto almeno un'ora di lavoro retribuito; nei contratti i conteggi si fanno per ora di lavoro; anche i dibattiti – più internazionali che italiani – sul salario minimo e quello sul salario di sussistenza (living wage) verte sulla base oraria. Questo ha un senso. Serve per il confronto, ma non solo. L'idea di fondo è che chi lavora un'ora, ne lavora altre, fino ad arrivare a un numero sufficiente per vivere dignitosamente.

Questo era vero prima. Sappiamo che oggi non è più così. Nella manifattura forse sì, ma in Emilia-Romagna il 70% circa della produzione è legata ai servizi, dove il lavoro è altamente frammentato. Nel lavoro sociale si è pagati per singola ora frontale e non di rado si passano interi mesi con 0 ore e quindi con 0 euro in busta paga (ne ho viste di negative – con -14 euro). Nella ristorazione collettiva, per intenderci, le mense scolastiche e la preparazione dei pasti negli ospedali, si lavora anche per 2 o 3 ore al giorno. Sappiamo poi quanto il part-time involontario sia un fenomeno diffuso in Italia soprattutto tra i più giovani. In Emilia-Romagna il part-time involontario per i 25- 34enni è del 62,3%; 20 punti in più del dell'intera platea. Ridurre il riconoscimento del lavoro alla singola ora lavorata è un aspetto centrale della mercificazione.

L'importanza della retribuzione nel riconoscimento del lavoro non è assoluta, ma dipende dalla resenza di altre cose. E qui arrivo al secondo elemento che vorrei toccare che è quello che i sociologi chiamano desalarizzazione. Ora, noi in Italia parliamo normalmente di retribuzione o, peggio, di reddito. Come se la rendita o il salario fossero una stessa cosa.

In Francia, dove su alcuni aspetti si ragiona più che qui da noi, la normativa parla di salario quando i fa riferimento al compenso del lavoro dipendente privato; di onorario quando il compenso è per il lavoro dei professionisti; di trattamento, quando il lavoro è svolto per il pubblico e si usa la stessa parola per e pensioni. Sono sempre soldi, ma includono differenze relative al senso del lavoro. Per questo, arlare di salario ci permette di ragionare su quegli aspetti che vanno oltre la componente monetaria. In Italia il contratto di lavoro standard, oltre alla parte monetaria, comprende tutta una serie di obblighi e doveri del datore e del lavoratore e della lavoratrice che definiscono il confine della subordinazione. Nei contratti non c'è scritto come si produce la carta o come si svolge il lavoro sociale. Nel contratto c'è scritto quanto guadagni per un'ora di vita che vendi al datore, c'è scritto cosa può essere richiesto in quell'ora, quanto quell'ora vale nel computo di altri aspetti, come il calcolo delle ferie, delle pause, in termini formativi; quante ore di vita puoi vendere al mese etc. etc. Il salario è anche tutta quella roba lì e non solo.

Il salario è anche ciò che di collettivo è implicato in quell'ora lavorata. I contributi pensionistici, le tutele in caso di malattia, in caso di perdita del lavoro o di anzianità i servizi collettivi pagati con il lavoro individuale. Quando si parla di desalarizzazione, quindi non si parla solo della riduzione della paga, ma anche della difficoltà ad andare oltre il senso individuale del lavoro. Con la fine della società salariale finisce il senso di responsabilità collettiva del lavoro. Nel pratico, la desalarizzazione avviene come avveniva con i voucher, ma anche rimuovendo i sociali che il lavoro implicava e implica, tuttora, per alcuni. Pensiamo ai tirocini, agli stage, all'alternanza scuola-lavoro, alla parasubordinazione al lavoro autonomo, a chi è pagato in parte con i buoni pasto. Tutti lavorano, di fatto, ma il lavoro perde il senso collettivo e si riduce al compenso orario, se c'è, o alla contropartita simbolica (il curriculum più lungo, la soddisfazione di un obbligo come negli stage o nell'alternanza etc.) Abbiamo intere generazioni, diciamo da chi è nato nella seconda metà degli anni '80, che di tutto quello che c'era al di là della paga oraria non hanno che un'esperienza indiretta. Anche per me, che ho svolto buona parte del mio precariato accademico con la partita iva, l'esperienza della pandemia è stata la prima occasione in cui sono entrato nel sito dell'INPS per richiedere una prestazione che fosse per me. Su Facebook, nelle chat dei precari dell'università giravano video tutorial sul come fare per accedere e orientarsi rapidamente sul sito dell'INPS. Si tratta di persone mediamente giovani, istruite, che fino ad allora non hanno mai avuto occasioni di accesso a forme di tutela. Quindi da un lato, con la mercificazione del lavoro, abbiamo portato tutta la nostra attenzione al “quanto”, dall'altro, abbiamo rimosso una parte rilevante del “come ed il perché” lavorare. Il quanto e il come sono invece due pezzi che vanno insieme. Nel documento uscito dalla Conferenza Generale dell'Organizzazione internazionale del lavoro, 1944, si affermava che il lavoratore e la lavoratrice avessero il diritto e il dovere di contribuire per il benessere comune, avendo la soddisfazione di mostrare la propria abilità e conoscenza. È la combinazione del quanto e del come e del perché che rende dignitoso anche un lavoro che potrebbe sembrare poco interessante. Questa è una prima risposta alla questione sulla dignità del lavoro posta dalla Professoressa Zani in apertura. Se adottiamo la Cura come prospettiva politica, la cura è responsabilità verso gli altri e il contesto in cui viviamo. Nel medioevo, un incarico “sine cura” era un incarico solo formale. Senza sostanza. Per questo parlo di lavoro senza cura. Il lavoro senza cura è un lavoro mercificato e desalarizzato, in cui prevale la logica del quanto ed è un lavoro deprivato della sua sostanza, della responsabilità collettiva. Eppure abbiamo visto, anche nell'intervento del Professor Rosina che i più giovani mettono al primo posto del loro interesse le dimensioni collettive del vivere, dalla felicità e del benessere dei cittadini, fino al rispetto dell'ambiente.

Chi non trova un senso al proprio lavoro e lavora solo per il ricatto della fame, lavora male e sta male.

Oggi abbiamo parlato di dimissioni, di quite quitting, cioè del limitare lo svolgimento del proprio lavoro al minimo, senza metterci di più. Senza altro significato che non sia quello economico, non è trano limitarsi a fare ciò per cui si è pagati. Se poi si è pagati poco allora si lavorerà poco. Ma è chiaro che quel tema ci riporta in primo luogo al senso e al significato del lavoro. Nell'intervento del professor Pietrantoni si parlava di engagement, di impegno. Io parlo di responsabilità e di cura, ma parliamo di cose simili. D'altra parte, le ultime generazioni sono state addestrate al disimpegno, alla mancanza di responsabilità. Le forme di lavoro a termine, gli stage, i tirocini, l'alternanza, riducono il senso collettivo del lavoro, lo privano della sostanza. Chi non ha avuto altra esperienza che non fosse la mancanza di cura sul lavoro, perché dovrebbe offrirne?

Chiaramente le dimissioni sono un altro tassello del ragionamento. In Italia dimettersi implica la perdita delle tutele come la Naspi, quindi non è “facile” come altrove e anche i dati sulle cessazioni per dimissioni in Emilia-Romagna raccontano un fenomeno in crescita, ma che non è del tutto sovrapponibile alla narrazione della greatresignation. Certo, in alcuni casi le dimissioni sono l'unica possibilità per star meglio. Non sempre si può fare il quite quitting. Nel lavoro sociale, dove hai di fronte la persona con tutte le sue fragilità, non puoi semplicemente dire “ho finito il mio turno, a domani”. Il senso del lavoro – la cura – si perde dietro un'organizzazione che risponde alle esigenze economiche definite negli appalti pubblici e che fanno star male le persone che vi operano. Nell'intervento della Dottoressa Mauri si è parlato del disagio psicologico dei lavoratori e delle lavoratrici più giovani. Nelle inchieste e ricerche che anche in IRES stiamo svolgendo vediamo che tra i più giovani il disagio psicologico è più forte che tra i più anziani. Probabilmente incidono le condizioni, ma anche i livelli di consapevolezza. Il problema è che anche su questo elemento che coinvolge i più giovani, costruire la tutela è molto difficile. Soffrire di insonnia, di ansia non è come avere un tunnel carpale, ma è su patologie come il tunnel carpale che si basa il sistema di tutela. I problemi di cui abbiamo parlato oggi non riguardano solo i settori citati e, soprattutto, non sono solo fatti italiani. Non perderei insomma altro a parlare di reddito di cittadinanza. In Francia ha fatto rumore il rifiuto degli ingegneri ambientali, tecnici, non filosofi, che una volta usciti da una delle più importanti scuole del settore (agroParisTech) hanno invitato i loro colleghi e colleghe a disertare la domanda di lavoro che viene dal mondo delle imprese che sono la causa dei mali che col loro lavoro dovrebbero ridurre[2]. Questa cosa ha fatto molto rumore perché oltre a provenire da un segmento particolare è stata emulata. Ma di problemi nel reclutamento in Francia li hanno anche per i medici, per l'insegnamento pubblico. Sempre di cura si parla. Che sia per il pianeta o che lo sia per le persone, è difficile trovare la cura necessaria a dare senso al lavoro.

Allora, la questione con cui vorrei chiudere riguarda il legame tra tutto questo e la fase drammatica he stiamo attraversando. Perché se è vero che nelle cose che ci stiamo dicendo oggi il senso del lavoro è un aspetto centrale e che questo è venuto meno con i processi di mercificazione e desalarizzazione, allora la pandemia c'entra fino ad un certo punto. Piuttosto è in quel contesto che le contraddizioni e tensioni che preesistevano sono emerse. E questo significa anche che questi nodi non li sciogliamo con un intervento spot. Se ci sono voluti 20 o 30 anni per arrivare a questo punto, la scelta della data dipende da quale riforma prendiamo come soglia e pensavo alla riforma del mercato del lavoro del 2003 o alla fine ella scala mobile degli anni '90 – non sarà un bonus o un protocollo a ridare senso al lavoro. Piuttosto, serve un cambio di prospettiva, dall'individuale al collettivo, che metta al centro le persone e non le imprese, che metta al centro il salario e non il profitto. Che metta al centro la cura e l'interdipendenza tra gli esseri viventi.


Ricercatore sociale presso IRES Emilia-Romagna

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  1. Elaborazione IRES ER su Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro Istat – 2021
  2. Qui un articolo sull'argomento di Alternatives Economiques: https://www.alternatives-economiques.fr/franckaggeri/jeunes-diplomes-veulent-un-travail-sens/00103432