interviene a commento dell'articolo di , portando il proprio sapere esperienziale di utente dei servizi di di Trieste.

Ho letto con molto interesse l'articolo di sulla “Partecipazione senza potere nei servizi di salute mentale“, che ho vissuto come una provocazione, e che mi ha fatto riflettere e mi ha stimolato a pensare un mio personale punto di vista.

Parlo per sapere esperienziale, come persona che ha attraversato i servizi di a Trieste per più di trent'anni.

E parto da alcune considerazioni che dolorosamente si affacciano alla mia mente: il momento della crisi, la fase più o meno lunga della sofferenza mentale è un abisso. Sono partita da un baratro, che ho intravisto più e più volte, in un cammino verso la recovery che è stato lungo, zigzagante, certamente non facile, non lineare, non scontato. E sono ancora in cammino, perché penso di non aver raggiunto alcun traguardo, perché forse il traguardo non esiste.

Nei lunghi anni di frequentazione dei servizi triestini sono vissuta a fianco di molte persone, che ho visto guarire, riappropriarsi delle loro forze e della loro vita. Sono state offerte loro possibilità di crescita attraverso di cura e di presa in carico individualizzati, ma che allo stesso tempo si ponevano in un contesto di costruzione di salute comunitaria.

La alle riunioni aperte del “recovery college”, ad esempio, erano affollate e creavano conoscenza e vicinanza, oserei dire affiatamento reciproco. E così tutte le altre numerose, ripetute occasioni di incontro trasversale, cui erano invitati operatori assieme a persone con esperienza.

Dunque, una forma di guidata, che auspicava crescita, emancipazione, senso di responsabilità, senso di appartenenza nel prendere coscienza dei propri , nel ribadire con forza i propri diritti, sia da parte dei familiari che della base degli “utenti”, in funzione di un possibile coinvolgimento nella gestione dei Centri di e del Dipartimento: il Comitato di che vede lavorare assieme rappresentanti delle tre componenti, operatori, familiari, persone, si muove nella direzione di dare potere decisionale effettivo a tutti i soggetti coinvolti.

Costruire consapevolezza e volontà di impegno costante per prendere in mano le proprie vite, per portare avanti con senso di responsabilità una gestione collettiva della salute mentale nei luoghi di sanità pubblica non è assolutamente facile.

A Trieste, nel recente momento di attacco eclatante alla salute mentale di , qualcosa si è mosso: le Associazioni dei familiari si sono allertate e hanno preso posizione; molte persone con esperienza hanno partecipato alle agorà autoconvocate, dove tra l'altro hanno anche denunciato criticità e manchevolezze dei servizi. Gli operatori presenti sono stati davvero molto pochi.

Stiamo attraversando, a mio avviso, un momento di difficoltà, in cui le psichiatrie improntate a paradigmi clinici medicalizzanti si prendono prepotentemente la scena.

La Conferenza sulla salute mentale di sostenuta dal ha ribadito la necessità di sostenere con forza i valori e le linee che parlano di centralità delle cure olistiche improntate alla valorizzazione e all'ascolto dei bisogni delle persone, cui è necessario dare risposte concrete.

Lavora in questo momento in Italia la nazionale utenti, che prende le mosse dalla utenti della Lombardia, e spesso guarda all'esperienza delle Parole ritrovate di Trento: questo è un inizio di aggregazione, ancora timido e in formazione, a mio avviso.

Penso che la co-progettazione sia fondamentale per stimolare e rafforzare un senso di responsabilità, di volontà di e di raggiungimento di potere decisionale, che non è assolutamente scontato nelle persone “utenti”: in questo senso un lavoro costante di formazione in funzione di una crescita collettiva delle diverse componenti coinvolte nei Dipartimenti, mi sembra indispensabile. Penso a una formazione che porta cambiamento, improntata alla recovery, in cui le persone siano messe in grado, siano sollecitate alla autodeterminazione. E a mio avviso non si tratta di paternalismo, ma di un bisogno effettivo di incentivi e di aiuto in persone fragili, sofferenti, spesso isolate, che vedono negli operatori un punto di riferimento forte.

Ho espresso il mio pensiero con poche parole balbettanti, ma veramente penso che anche la assunzione di potere da parte dei familiari e degli “utenti” vada costruito assieme in un contesto comunitario.


Storica contemporaneista