Risposte per sequenze di eventi
La sensazione è di essere paralizzati, congelati, non è solo un blocco fisico ma un blocco che mina lentamente la capacità di agire/pensare. Il pressante invito di “stare a casa” diventa “non ti muovere”, lascia fare a chi sta “in trincea”, a chi è sotto “fuoco nemico” (il virus) e sta operando anche per te. Poi ci sono le leve di comando che dirigono “la battaglia” e che al resto del mondo trasmettono “il bollettino di guerra”.

Poi emerge che per far funzionare l'impianto complessivo che ha comportato un potenziamento degli interventi sull'effetto più devastante dell'epidemia (i malati di covid19), servono attrezzature (ventilatori per le rianimazioni), materiali per mettere in sicurezza gli operatori (mascherine) e poi la cosa si estende e cominciano a mancare le mascherine: allora scatta la ricerca dove poterle trovare e dove produrle (anche Armani si offre).

La scoperta di ciò che appare sfuocato o messo nelle zone d'ombra ma che costituisce quell'imprescindibile che potrebbe determinare una emergenza nell'emergenza, ci ha portato a rilevare che per avere gli ortaggi nei negozi occorre che qualcuno li raccolga e quelli che li raccolgono in che condizioni sono? E così l'elenco si allunga, i disabili costretti a casa, le case di riposo degli anziani e altre situazioni analoghe mettono in luce che guardare solo alla “trincea” non è risolutivo. Lo sgretolamento è ovunque, anche se siamo partiti dalle terapie intensive e deciso come priorità di contenere i ricoveri attraverso il distanziamento “sociale” per arginare il contagio.
In definitiva la logica che emerge è quella di aver proceduto attraverso risposte per eventi considerati in sequenza, anziché considerare l'epidemia come fenomeno caratterizzato da interrelazioni e da interdipendenze.

 

Geni solo in emergenza
E se avessimo avuto terapie intensive senza limiti di posti letto, avremmo adottato altre strategie? Avremmo dedicato risorse ad altro?

In un commetto letto su Facebook, che consiglio di prendere in visione ogni tanto perché dà un'idea di come “gira il mondo”, veniva detto “possibile che siamo dei geni durante l'emergenza e non lo siamo più in condizioni di normalità?”.
L'abbondanza delle soluzioni, delle invenzioni e della genialità espressa in questo periodo è alquanto alta. Così come lo è in altre tipologie di catastrofi. È noto che eventi, quali terremoti, e altri disastri naturali, mettono sotto sopra la quotidianità e sono dei formidabili inneschi di azioni “straordinarie” sotto diversi punti di vista. Chi le vive direttamente, pur toccando con mano la sofferenza e il dolore, si sente disposto a dare molto di sé stesso attraverso l'attivazione diretta, contribuendo appunto con l'identificazione di soluzioni utili, ma anche facendo materialmente ciò di cui c'è bisogno. Si vive in un tempo sospeso, dove i confini che prima erano dei solchi che tracciavano divisioni insuperabili, svaniscono.
I racconti sono pieni di narrazioni che descrivono il senso di vicinanza, di solidarietà e anche il riconoscimento di competenze professionali che prima erano sconosciute. Nel terremoto che aveva colpito la zona dell'Emilia qualche anno fa, veniva riportato che il lavorare senza “muri” negli stessi spazi creati per l'occasione (tende, container) favoriva il lavoro di équipe, l'integrazione era più facile.

Anche in questa emergenza si vivono queste condizioni “speciali” che portano a sentirsi più disponibili, non è un caso che sono arrivate agli enti richieste da parte di cittadini singoli di fare i volontari, donazioni ecc. Rispetto ai servizi l'intensità del momento e della condivisione di un “attimo eroico”, allenta i freni e il riserbo. Non appare strano che chi lavora “in trincea” affida ad un video il mostrare i propri sentimenti e l'orgoglio di appartenenza, l'essere parte di un gruppo, testimoniandolo con una propria dichiarazione oppure creando una sorta di “performance musicale”. Ogni catastrofe ha i suoi eroi e atti eroici.

Ma tornando alla domanda catturata da Facebook e riportata sopra, non sembra che rimanga molto di questa dimensione sociale/collettiva che sarebbe fondamentale per sedimentare un apprendimento che dovrebbe depositarsi come “sedimento prezioso” nel sapere di una collettività.

Quello che rimarrà di tangibile sono le linee guida, le procedure, l'affinamento della gestione del rischio della epidemia virale quale nuovo caso oltre alle catastrofi già note. Forse anche alcune idee su cambiamenti nell'organizzazione dei servizi, ma quanto saranno dettate da logiche di ottimizzazione e non da innovazioni che ridisegnino il senso del prendersi cura? Sicuramente verrà dato il via libera all'utilizzo della strumentazione informatica. È evidente che le resistenze del prima Coronavi19 sono cadute e ognuno si è attrezzato ad utilizzare piattaforme per potersi connettere per lavoro, per studio, ecc. ma questo come viene metabolizzato per farne diventare tema non solo del mondo del lavoro ma anche riflessione delle nostre quotidianità?

Ripartenza, verso dove?
Più in generale come possiamo trasformare le costrizioni, i comportamenti che abbiamo agito, le scelte compiute in una riflessione che ci porti a organizzare un pensiero che ri-orienti complessivamente ciò che abbiamo vissuto anziché farne dei punti elenco? Il rischio che il tutto si riconduca a pensare che si possa ripartire senza interrogarsi sulle traiettorie delle nostre vite che maggiormente sono state colpite e messe a nudo, quasi che la ricostruzione sia riparare i danni prodotti, non ci sarà servito a molto.

La tentazione di colmare lo smarrimento, il vuoto, il silenzio, l'incertezza con le scelte di ripartenze che non trascinano nei discorsi, nelle proposte anche questi aspetti, il senso di “riempimento e di sazietà” non ci sarà. Le pressioni per riaprire i luoghi di lavoro, dettata dalla preoccupazione di trovarsi in una crisi economica abnorme, in che misura tengono conto della sicurezza dei lavoratori e qui si sta già rispondendo. Ma poi se le scuole sono chiuse, chi si prenderà cura dei figli? E così via. La catena si allunga sempre più e obbliga a trovare risposte che lentamente fanno “ripartire” e la logica che sottende è quella di azioni che in modo puntiforme intervengono sulle singole situazioni.

Si ritorna quindi alla normalità senza aver sfiorato e tenuto in considerazione le ferite di un corpo collettivo, che si renderebbe visibile solo se la lettura di ciò che sta succedendo fosse stata guidata da ciò che emerge nelle zone in ombra. Lo smart working non è così smart come sembra. Riaffiorano problemi che sembravano mitigati, invece si ripropongono differenze di genere (le donne a casa con figli finiscono per dedicare più tempo del proprio marito alla cura dei figli nei compiti), conflitti che esplodono, soluzioni di co-housing che si manifestano in realtà come convivenze forzate.

Il virus ha mostrato subito che siamo dentro a un “corpo” e come tale non si può prescindere dalle interrelazioni e interdipendenze.

Maria
Responsabile Programma “Innovazione Sociale”
Agenzia Sanitaria e Sociale regionale dell'Emilia-Romagna