Capita di sentir spesso parlare dei rischi del specie per i : s'ipotizzano nuove dipendenze, o proliferazione di discorsi d'odio o di , e così via. Tutti aspetti importanti, da tenere certamente in considerazione.

Si sente meno parlare, invece, di un altro aspetto che meriterebbe più ricerca e attenzione di quanto non siamo riusciti a fare finora: le gigantesche corporations che lo hanno colonizzato e per le quali inconsapevolmente noi tutti lavoriamo… gratis, mentre loro guadagnano miliardi (e pagano pochissimo le tasse).

Qualche esempio? Google, Amazon, Facebook, Twitter, Apple, Microsoft. GAFAM è la sigla con cui si è soliti identificarli. Ma potremmo proseguire… Ad esempio con i giganti cinesi che si avvicinano all'Occidente, come Tencent, o ByteDance con il social Tik Tok che tanto attrae anche gli adolescenti italiani, i cui dati finiscono in Cina.

In cosa consisterebbe il loro ruolo nell'influenzare la maniera in cui le informazioni “circolano” e hanno maggiore o minore probabilità di arrivare a noi, con forza tale da trasformarsi in significati utili per la nostra opinione o persino il nostro agire?

Ci si dice da più parti che saremmo sommersi da un sovraccarico di informazioni online: sembrerebbe difficile comprendere come selezionare quelle degne di fiducia e utili per noi. Ecco allora in soccorso le “reti” in cui ci rifugiamo navigando nell'oceano sconfinato del . Reti social, come Facebook, che ci permettono di raggrupparci in più o meno grandi attraverso le quali filtrano informazioni che riteniamo orientate dai nostri “amici”. Oppure aggregatori di notizie o servizi, o il grande motore di ricerca di Google a cui rivolgiamo le nostre domande più varie.

Si creano in questo modo nicchie, bolle comunicative o camere-eco, organizzate da regole e procedure non sempre evidenti. Le guidano algoritmi che sfuggono al nostro controllo e risucchiano miriadi di dati aggregandoli secondo modelli che dovrebbero rappresentarci (dati che fluiscono oltreoceano o ora anche in Cina). Facebook – ad esempio – prende nota e raccoglie dati sui nostri ‘mi piace', i nostri contenuti, le nostre relazioni. In tal modo orienta la gerarchia dei post che ci appaiono per primi in bacheca, indirizza pubblicità e informazioni profilate su di noi, oltre a vendere le “profilazioni” basate sui nostri dati di navigazione a chi voglia adottare un marketing tailored, vale a dire ritagliato su misura, personalizzato. Analogamente Google registra quel che facciamo col suo motore di ricerca o navigando in uno dei suoi vari servizi o scrivendo una gmail; può così accadere che Google news ci fornisca un'agenda di notizie orientata su quello che i potenti algoritmi e le macchine intelligenti che li elaborano hanno calcolato per noi; o quasi d'incanto appare d'improvviso una pubblicità su un prodotto che ci appare di immediato interesse. E se su Amazon abbiamo appena acquistato un libro, tanti consigli che ci paiono utili orientano di nuovo all'acquisto basandosi su di “noi” (su quel che abbiamo fatto noi o altri presunti simili a noi e che qualche oscuro algoritmo ricalcola). Netflix o Youtube catturano cosa vediamo e rilanciano, compulsivamente, scegliendo per noi e basandosi – dicono – su di noi.

La chiamano la nuova svolta del marketing: quella in cui al centro non c'è più la merce, ma il consumatore, che diventa egli stesso attore protagonista.

Straordinaria ambivalenza che i nuovi volti dei giganti del ci rendono utile, flessibile e mutevole. Sono attenti alla più piccola variazione, alle mosse di altri concorrenti, alle innovazioni tecnologiche di sviluppatori creativi di cui si affrettano ad acquistare i servizi e le rispettive imprese, affinché nessuno più rimanga davvero indipendente.

Oggi senza dubbio ci sono opportunità maggiori di accesso e condivisione di conoscenze e informazioni; a fronte di costi che tutto sommato sembrano aperti a forme ampie d' sociale. Tanto più che spesso non li paghiamo in denaro sonante bensì in offerta libera (e inconsapevole) di cookies o dati su di noi. Come ebbe a dire un celebre marketer: «quando qualcosa è gratis, sei tu la merce».

Cambia, in effetti, il rapporto “produttore-consumatore”, specie perché i nuovi volti della distribuzione online tendono a influire in modo diretto ma non facilmente controllabile sia sul produttore sia sul consumatore.

La maniera in cui si costruiscono e si rilevano i cosiddetti e i vari dati utilizzati negli algoritmi di Google o di Facebook, nonché la combinazione di variabili con cui sono costruiti ed elaborati tendono a diventare un nuovo grande segreto industriale custodito da pochi oligarchi. E al stesso una nuova rappresentazione ideologica di chi siamo.

Occorrerebbe forse cercare di acquisire qualche competenza nuova per mantenere almeno una vigilanza minima sui modi in cui assegniamo fiducia e legittimità a questa o quell'operazione di produzione e distribuzione delle informazioni? Eppure, nonostante esistano oggi altri motori di ricerca efficaci, indipendenti, o europei e più rispettosi del nostro operato, sembra che lo statunitense Google monopolizzi l'uso del 91% dei navigatori di internet nel mondo.

Oligarchie monopolistiche che costituiscono super-élites tecnologiche connesse in modo non sempre chiaro con altri tipi di élites di cui sembriamo più abituati a parlare (economiche, finanziarie, politiche) e che certo non smettono di esistere.

Uno dei nodi cruciali è che diventa poco agevole ricostruire i legami e l'influenza reciproca che le une esercitano sulle altre: quanto contano la “taglia” o la forza rispettiva del produttore e del fornitore di servizi d'infomediazione? Quali sono davvero i margini di manovra di negoziato? Quali sono le regole di produzione delle informazioni e della gerarchia d'importanza dei contenuti in questa ragnatela di miliardi di azioni-reazioni ogni secondo? Quanto davvero ci rappresentano i gusti ricostruiti dagli algoritmi e quanto invece finiscono per convincerci che siano nostri proprio quelli che Google propone, forse per il noto effetto della self-fulling prophecy, la profezia che si auto-avvera?