, illustratrice e arte terapeuta, ci parla del suo mestiere e della comunicazione con i bambini.

– Dai primi libri-gioco all'arte terapia, tutto il suo percorso è stato costruito dai bambini e per i bambini. Come mai?

I bambini mi interessano. In realtà noi che lavoriamo con l'arte restiamo sempre un po' piccoli, forse è anche questo il tema. Ritengo che l' sia in qualche modo sacra e quindi, chi può, ha il dovere di lavorare affinché i cuccioli possano mantenere questa loro parte intatta anche quando crescono. Lavoro tanto anche con gli adulti in realtà, ma il mondo dell' ha un fascino enorme. Ho un trasporto particolare per tutto ciò che è inizio: la nascita, l'inizio di un progetto, quello di un percorso. Tutti gli inizi sono molto affascinanti, ma quello della vita lo è in modo totalizzante. 

– Quali sono secondo lei le difficoltà della comunicazione adulto-bambino? 

Mi sono fatta un'idea che forse è un po' rivoluzionaria: l'assenza o il blocco della comunicazione è sempre un problema degli adulti. Quando incontro le patologie in cui è bloccata la comunicazione, e penso a situazioni diversissime tra loro come l'autismo, il mutismo elettivo o la cecità, in realtà riesco sempre ad entrare in contatto con i bambini. Credo che il fatto di non avere paura sia fondamentale: aiuta essere molto naturali e saper seguire l'istinto. Credo che le persone abbiano diritto ad essere viste, guardate bene negli occhi, nella loro postura, con amore e curiosità poiché difficilmente, quando esiste un vero sguardo, non vi è comunicazione. Magari essa avviene in modi altri, nuovi e complessi, ma c'è sempre. Penso che il problema comunicativo più evidente appartenga a chi è considerato normale. In un periodo storico in cui si temono parole che definiscono problemi (morto, cieco, sordo) ed esse sono sostituite dalla negazione di un poter fare (venuto a mancare, non vedente, non udente) credo che la cosiddetta “normalità” rappresenti un gran pericolo perchè è semplice adagiarsi ed adeguarsi a tale normalità appiattendo la vita e il vissuto delle persone. Per me la normalità non esiste, in realtà siamo tutti molto strani se ci guardiamo bene, a fondo. Come siamo tutti disabili e tutti più o meno traumatizzati. Siamo disabili quando perdiamo una persona cara, quando ci facciamo male, quando siamo tristi. Ho difficoltà a credere nelle categorie di persone. Mi interessa chi ho davanti, lo guardo, ne apprezzo la parte più complessa e mi sembra naturale comunicare nel suo modo, più che nel mio.

– Il problema, quindi, può essere come si pone l'adulto davanti al bambino e alla disabilità?

Il problema è come ci si pone e oggi, ancor peggio, come non ci si pone. Abbiamo uno sguardo assente e un ascolto assente, che a me colpiscono sempre tanto. Non si sente il messaggio perché non ascoltiamo, non vediamo nulla perché non stiamo osservando.

– Quanto sono importanti le parole, il linguaggio, le storie o le illustrazioni per la crescita dei bambini? Possono aiutare in questa comunicazione?

Secondo me le immagini sono importantissime, ma lo sono anche le parole. I vocaboli belli vanno usati, è importante la bellezza poiché nutre, consola, fa crescere, è un rifugio, è necessaria. Esistono bambini privati della bellezza che poi quindi non la vanno a cercare, perché non sanno che esiste. Se si fa esperienza di bellezza ci accorgiamo che essa rappresenta una sorta di droga senza effetti collaterali. Se ne usufruiamo possiamo stare bene senza farci del male. Questa è cosa rara e preziosa, generalmente tutto ciò che fa star bene ha molti effetti collaterali mentre l'arte, la scrittura, la narrazione sono così belle, così necessarie, così sane. 

Le parole possono anche essere armi potenti. Dovremmo ragionare prima di usare determinati vocaboli. Sento purtroppo insegnanti e istituzioni utilizzare spesso parole sbagliate: quando un ragazzo deve ripetere l'anno si usano parole o frasi come “respinto”, “perdere l'anno”, si ha la percezione che la crisi scolastica sia considerata una perdita di tempo. Il tempo è perso quando non lo viviamo e quando non andiamo a fondo nei temi, quando stiamo in superficie. Dovremmo riflettere sulle parole usate spesso in modo incongruo nella nostra quotidianità.

L'immagine per me è importantissima: viviamo in un mondo fatto di immagini che con molta facilità vengono date anche ai bambini piccoli. Sono mostrate immagini brutte, cruente, terribili e pochissime immagini belle, complesse. La complessità della bellezza, per esempio, secondo me è fondamentale. Spesso le immagini date ai bambini sono molto facili e stereotipate, credo che sia un grande errore perché la diversità d'immagine è la prima forma di interculturalità. Un bambino piccolo che ha libri diversi, in cui vivono immagini non stereotipate e diversificate, imparerà a cogliere la diversità come valore, sarà una persona accogliente e curiosa anche con i tanti mondi che fortunatamente incontrerà intorno a sé. 

– Cosa dovremmo leggere ai bambini? Ci sono libri giusti e libri sbagliati?

In linea di massima credo che non ci sia un libro sbagliato ma in questo periodo sto vedendo ogni tanto dei messaggi sbagliati nei libri e su questo sono molto severa. Ad esempio, nel momento in cui sta morendo il mare è gravissimo che sia pubblicato un libro in cui ci si diverte a trattare male i pesci. Oppure in una società in cui con grande facilità vengono uccise le è veramente sbagliata la pubblicazione di libri pieni di forti stereotipi femminili e maschili. Li trovo errori gravi, vorrei che questi libri non fossero pubblicati e dovrebbero essere gli editori a rifiutarsi di farlo. 

I contenuti è quindi fondamentale che siano mirati e di valore, mentre i gusti sono personali. Ognuno ha le proprie preferenze estetiche. Ai miei figli ho sempre comprato i libri che mi chiedevano anche se a volte li trovavo brutti: li portavo in libreria e loro sceglievano  liberamente anche cose che a me non piacevano. Ma non ho mai detto di no all'acquisto di un libro. Ci sono tante altre cose a cui dire di no, il libro non è tra queste. Quando sceglievano qualcosa che a me non piaceva compravo loro anche un bel libro, sia da un punto di vista artistico che letterario, così poi li leggevamo entrambi. Inoltre chiedevo sempre il perché ai bambini e scoprire come mai avessero scelto proprio quel libro è stata una crescita per me. È necessario essere curiosi e se lo si è alla fine va bene quasi tutto. 

– Lei è una illustratrice, scrittrice ma anche arte terapeuta. L'arte terapia è molto utilizzata in Italia? In che modo può risultare utile nella comunicazione e nel linguaggio nei primi anni di vita?

L'arte terapia oggi in Italia si comincia a conoscere abbastanza, mentre quando ho fatto la formazione io si utilizzava molto meno. È una terapia particolarmente efficace, perché quando c'è un disegno o l'uso dei materiali tutto diventa evidente in modo precipitoso. In assenza di una buona formazione è impossibile accogliere e contenere ciò che emerge nel setting, e questo può veramente essere pericoloso. 

Il mestiere di arteterapeuta mi ha reso possibile dare aiuto alle persone tramite l'arte. Prima di fare la formazione per me era naturale che l'arte aiutasse perché fare arte mi ha sempre curata. Quando ho visto il titolo del convegno di Firenze “L'arte che cura” ho pensato che fosse scontato. E ho capito che era il mio tema. Perché niente è scontato in arte, esistono persone che sono bloccate. Restituire l'arte a chi ne è stato derubato rappresenta già spesse volte una cura. Negli anni mi sono accorta che quando ai miei pazienti rendo la loro arte stanno subito meglio, fare semplicemente arte è già un passaggio enorme in relazione al benessere. 

Noi arteterapeuti ci prendiamo cura di tante patologie. Io in particolare mi sono specializzata sul trauma ma amo molto lavorare sull'infelicità della normalità. Credo che una società fatta di persone infelici porti a conseguenze gravissime, sia da un punto di vista politico che sociale. Generalmente lavoro su questo con dei risultati molto evidenti, io stessa mi stupisco della velocità con cui migliora la qualità della vita della maggior parte dei pazienti. La terapia spesso è molto rapida, soprattutto in una prima fase che è importante per creare la fiducia del paziente nelle proprie mani e nella propria capacità di esprimersi e l'alleanza terapeutica. Poi in una seconda fase c'è necessità di un assestamento e un'ottimizzazione che può durare anche tanto, a volte con ritmi di sedute molto blandi, a volte più frequenti. Nella prima fase la terapia è davvero efficacissima tanto che nei primi anni il risultato iniziale mi lasciava quasi interdetta. A volte pensavo “Ma guarda come sta bene questa volta, chissà cosa sarà successo di bello nella sua vita” e invece era la nostra terapia che lavorava velocemente, ma non potevo credere che questo processo fosse così rapido. 

– Ha avuto esperienze di setting terapeutici per bambini con difficoltà a cui lei ha partecipato insieme a terapeuti (logopedisti, neuropsichiatri)?

La stanza dell'arteterapia per me è un luogo sacro, non riesco a condividerlo con altri professionisti. Amo essere l'unica terapeuta nel setting, a volte con gruppi anche molto numerosi. Però nella vita non si sa mai, magari lo proverò e sarà bellissimo e soprattutto efficace, chi lo sa. Condivido invece spesso pazienti con altri professionisti, ognuno nel proprio setting, perché lo sguardo di un arteterapeuta è diverso da quello di uno psichiatra o da quello di altri terapeuti e questo può davvero aiutare ad avere una visione sfaccettata, e dunque fortemente salvifica, del paziente.