è logopedista presso il servizio di neuropsichiatria infantile del dipartimento di dell'Azienda USL di Bologna e con il ruolo di coordinatrice delle professioni riabilitative del territorio in cui lavora. L'abbiamo intervistata per il nostro blog.

– Qual è la funzione del logopedista e perché un bambino arriva da lei?

Il logopedista è una professione sanitaria nata 50 anni fa come insegnamento e come abilitazione al linguaggio per bambini con problemi di udito. Oggi il logopedista ha compiti di riconoscimento, di valutazione, di completamento della diagnosi per quanto riguarda il linguaggio parlato, scritto e letto. Non è una posizione legata solamente ai bambini, ma anche all'adulto: è una figura riabilitativa anche nei casi di asportazione della laringe, disfalgia della deglutizione, riabilitazione della voce oppure di danni neurologici. Comprende un campo di intervento molto ampio, quindi il logopedista si specializza per età e per ambiti.

Concentrandoci sulla comunicazione e sul linguaggio ci riferiamo soprattutto al bambino e se parliamo di bambini non possiamo non parlare dei genitori. Nel corso della mia formazione mi sono spostata da un intervento sul sintomo, cioè una risposta su un sintomo prodotto da un bambino, a una accoglienza del sintomo e quindi a un intervento più allargato nell'ambiente di vita del bambino, come ad esempio i genitori e i nonni.

I bambini possono essere sostenuti nel facilitare l'evoluzione del linguaggio quando qualcosa si incespica, quando tutto non va come dovrebbe. Le cause del “non-linguaggio” possono essere molteplici: ci sono situazioni più patologiche legate a dei danni veri e propri oppure delle malattie dismetaboliche o genetiche, dove il quadro è complesso e in questa complessità c'è anche una difficoltà ad acquisire il linguaggio per problemi cognitivi o neurologici. Ci sono, inoltre, i problemi di udito ma attualmente il tipo di riabilitazione è cambiato completamente rispetto al passato.

– Come è cambiato il discorso comunicazione/linguaggio nell' nel corso di questi anni? Si fa più attenzione al modo di comunicare?

Secondo me è cambiato molto. Se da un lato può portare a degli aspetti positivi, in realtà ce ne sono anche tanti altri negativi. Adesso ci sono tante difficoltà di relazione. Credo si faccia una grande fatica a strutturare lo spazio e il tempo: tutto è veloce, immediato e in movimento. Manca l'aspetto di routine, intesa come stabilità e modulazione ma non come rigidità. Ad esempio, se siamo a cena, senza accorgercene, prendiamo in mano il telefono.

Durante l'incontro alla Biblioteca Minguzzi-Gentili, Arianna Papini ha detto: “Io quando vedo delle mamme che camminano con il cellulare in mano e lo sguardo del bambino è perso, le fermo e le dico qualcosa”. Le ho detto: “Hai del coraggio”. La prima comunicazione è olfattiva e visiva. L'aggancio visivo è il primo organizzatore: parte da appena nati, si vede proprio quanto “la vista è il sintetizzatore dell'esperienza che fa nascere la mente e acquisire il linguaggio”.

Invece si inizia a parlare se si ha qualcosa da dire e qualcuno che ascolta. Non si insegna a parlare, si impara; è un atto abbastanza naturale in cui i ritmi sono molto importanti. Ad esempio, se si ha un genitore che parla sempre, non dando tempo al bambino di reagire, si crea una disfunzione nel ritmo e non permette al figlio di evolvere dall'ascolto al parlato. Una persona arriva a parlare, arriva a produrre, quando ha fatto tutta una serie di altri step di ascolto, di condivisione, di sguardo.

Bisogna avere un'attenzione particolare sull'uso degli strumenti che abbiamo a disposizione. Forse attualmente c'è anche meno rete intorno alle mamme, tanti spostamenti con le famiglie d'origine lontane. Questo è un cambiamento: come dicevo prima, non c'è una stabilità che permette una costruzione di un'identità o un'evoluzione.

Poi parliamo le lingue fin da piccoli, in casa si ha il mondo: basta accendere la tv e il villaggio globale entra. L'uso di dispositivi elettronici nel linguaggio del bambino può essere molto positivo, dipende dalla quantità. Bisogna fare attenzione: il consiglio dell'OMS è quello di non utilizzare i dispositivi digitali sotto i due anni. Mi è capitato di dare un libro a un bambino di due anni in ambulatorio e scorreva il dito sull'immagine, proprio come si fa sullo smartphone. Era talmente abituato all'uso del cellulare da non riuscire a girare la pagina.

– Quanto è importante l'ascolto del bambino?

Da parte di un logopedista, di un genitore o di un educatore l'ascolto è importantissimo. Credo siano fondamentali la figura e il ruolo dell'educatore nell'attivare processi e le attenzioni da parte dei genitori. L'ascolto è importante perché vuol dire: ti vedo, ti guardo, ti riconosco e metto uno spazio e un tempo fra di noi. Ascoltare non significa che hai tutte le porte aperte, ma mi permette di mettere i limiti che sono fondamentali anche per la nascita del linguaggio.

A me ha colpito molto questa definizione che trovai in un corso tanti anni fa: “Parlare è accettare di fare un gioco con regole decise da altri”. Se io sono nell'onnipotenza, che credo di governare tutto, non mi assoggetto alle regole di un parlato, di uno scambio. Nel momento in cui c'è una comunicazione io sottostò, devo avere la capacità di sottostare a un tempo che è fatto di attesa, di scambio. Vedere il linguaggio come capacità di giocare un gioco con regole decise da altri cambia la base dalla quale partire. Poi ci sono tutti gli aspetti fonetici, fonologici, i vari livelli che si possono andare a vedere, però l'incipit è questo.

– Ci racconti un po' la sua esperienza nel setting terapeutico.

La mia esperienza è iniziata 40 anni fa. Inizialmente mi sentivo l'esperta e avevo un atteggiamento giudicante nei confronti dei genitori. Piano piano, anche diventando madre, ho capito quanto è difficile esserlo. Uno si porta dietro le proprie esperienze, le proprie storie e ci devi lavorare. Puoi avere un atteggiamento da esperto e quindi chi viene da te ti ascolta, gli dai la ricetta pronta e gli dici cosa fare, ma ho visto che produce poco cambiamento o viene immagazzinato poco. Credo che la cosa importante sia accogliere il problema, la difficoltà.

Un genitore viene da me e mi dice “Ma perché non parla? Me lo metta a posto”. Non funziona così, non è un bimbo rotto che porti ad aggiustare. Cerchiamo di vedere a cosa è dovuto. Per me è stato molto utile una formazione di scuola francese che si chiama “Pedagogia relazionale del linguaggio” dove anche in una relazione terapeutica riabilitativa ci sono due soggetti che si incontrano: il terapista e il bambino. Lo spazio riabilitativo è un'applicazione di una tecnica però dentro una relazione significativa.

Andare dalla logopedista non può essere una cosa penosa, che mi fa star male. Devo aprire una funzione appetitiva, dev'essere una cosa piacevole. Se non scatta il piacere nella relazione è difficile. Quando poi ci sono anche delle difficoltà specifiche di relazione, come accade spesso, bisogna lavorarci ancora di più. Bisogna vedere i genitori come soggetti attivi ai quali restituire una competenza o fargliela trovare. Uno può essere affaticato, stanco, non tutte le giornate sono uguali, però riuscire a fare qualcosa di piacevole insieme al proprio figlio è sicuramente la medicina migliore. Infatti certe volte dico ai genitori che si può andare anche solo a buttare la spazzatura insieme, però quello è un momento vostro e mentre andate potete scoprire delle cose e costruire un momento di incontro.